La colazione

Svegliarsi era sempre stato doloroso per Alfredo. A niente servivano, da cinquantadue anni, gli sbadigli, gli stiracchiamenti, i lamenti, la sofferenza era davvero tanta, perché Alfredo amava dormire sopra ogni altra cosa.

Svegliarsi era sempre stato doloroso per Alfredo. A niente servivano, da cinquantadue anni, gli sbadigli, gli stiracchiamenti, i lamenti, la sofferenza era davvero tanta, perché Alfredo amava dormire sopra ogni altra cosa. Gli piacevano la morbidezza del cuscino, la rigidità elastica del materasso, il calore delle coperte. Adorava il passaggio dalla veglia al sonno, quando tutto era ancora da scoprire: la pesantezza delle palpebre, l’’accomodarsi mentale all’’interno di una deliziosa situazione diversa dalla realtà. Lì si sentiva un bambino in fasce e godeva del suo ritorno alle origini. Alfredo, si può dire, viveva per quel momento, per arrivare a sera, e potersi addormentare. Questo non significa, tuttavia, che non avesse una vita di relazione attiva: Alfredo aveva moglie, un lavoro più che dignitoso, alcuni buoni amici, ma niente di tutto questo poteva mai essere paragonato alla gioia di dormire. Una sola cosa, per Alfredo, non uguagliava il sonno ma rasentava la sua perfezione: era un sistema escogitato proprio per lenire la ferita continua, permanente, del risveglio: la colazione.
La colazione per Alfredo era come per un neonato nutrirsi al seno materno, ricollegarsi alla vita non poteva esistere se non con qualcuno che si prendesse cura di lui, che lo accudisse.
La colazione di Alfredo doveva essere in tavola un po’’ prima che lui arrivasse, di modo che il caffè e il latte non fossero bollenti, ma neppure freddi. I croissant, i biscotti, il pane con la marmellata, le fette biscottate col miele, i cereali, gli yogurt, la frutta sciroppata, la spremuta d’’arancia, i cornetti, l’’uovo al tegamino, il pane tostato, tutto doveva essere pronto, preparato a regola d’arte per lui.
Iniziatrice di quel rito era stata la madre di Alfredo, quando lui non aveva che due, tre anni. La moglie si era prestata volentieri a sostituire la madre in quel compito non particolarmente gravoso, anche perché Alfredo era un uomo buono e gentile, con una sola mania, quella. Infatti gli unici momenti di attrito, lui e la moglie, li avevano avuti proprio in quelle mattine in cui mancavano i cereali, o il succo d’’arancia non era fresco, o il caffè era venuto un po’ bruciacchiato. In assenza della moglie che passava tutti i mesi estivi in campagna, la madre di Alfredo, anziana ma ancora in gamba, si trasferiva a casa del figlio e si dava da fare perché la sua colazione fosse il ricordo continuo e costante di un’’infanzia più felice di come era stata veramente. I risvegli estivi con la mamma per Alfredo erano meno dolorosi, il ritorno alla vita ogni mattina era mitigato, smussato, lenito. La mamma preparava torte di mele morbide e saporite, crostate di crema da leccarsi i baffi, nella spremuta d’’arancia metteva tre cucchiaini di zucchero, come faceva quando Alfredo era bambino, il caffè era tostato da lei e aveva un aroma unico, il miele proveniva dal casale di campagna della vecchia contadina che l’’aveva cresciuto, e così pure le uova, che venivano preparate dalla madre con sapienza e originalità: una mattina à la coque, una mattina con lo zucchero e il latte, un’’altra mattina come zabaione col marsala, un’’altra sode col sale e l’’olio. Alfredo era felice, e il ritorno a casa della moglie, all’’entrata dell’’autunno, era sempre fonte di disagio, per quei risvegli non più perfetti.
Tutto filava liscio, apparentemente, ma una mattina accadde qualcosa di imprevedibile. Erano le sette quando, al suono inquietante della sveglia sul comodino, non rispose nessun profumo di colazione. Ai ripetuti sbadigli, stiracchiamenti, rantoli, mugugni e lamenti, non seguì nessun tintinnio di cucchiaini nelle tazze, nessuno sfrigolio di uova in padella, nessuno squillo di tostapane: niente. Tutto taceva. Alfredo si alzò di pessimo umore. E entrò in cucina: sembrava una camera operatoria prima dell’’intervento: pulita, linda, asettica, non un granello di polvere, non un cucchiaino fuori posto. La tavola era sparecchiata, non c’erano fornelli accesi, niente di assimilabile ad un pasto era presente nel locale. Solo un foglio, in bella mostra al centro del tavolo. “Caro Alfredo, lesse Alfredo sorpreso, me ne vado per sempre. Non ti amo più, né posso sopportarti oltre. Riceverai mie notizie dal tuo avvocato. Firmato, la tua ex moglie. Post scriptum: in vent’anni di vita in comune, hai mai notato che a colazione io non tocco cibo? Detesto mangiare prima dell’’ora di pranzo. Questo, Alfredo, ha scavato un baratro tra noi. Addio.”
Alfredo, stordito da tanta rivelazione, tornò a letto. Quel giorno non andò al lavoro e nemmeno nei giorni seguenti. Imparò a prendersi un caffè frettoloso al bar solo due settimane più tardi. Ma il sogno della vita per lui era finito. A cinquantadue anni bisognava crescere. E in fretta.