02 Nov La pasta
Il primo giorno alla scuola di Porthos significa cibo di conforto. Vogliamo riportare le persone a quei momenti di vita quotidiana nei quali si vuole essere incoraggiati, per esempio quando si torna da scuola o dal lavoro.
La pasta è il confort food per antonomasia, e quella prodotta dalla famiglia Assante ne rappresenta la quintessenza. Il pastificio Gerardo di Nola nasce nel 1870 a Gragnano. Negli anni trenta si trasferisce a Castellammare di Stabia, sede produttiva fino al 1995. Oggi la sede è tornata a Gragnano. La storia di Giovanni è avvincente: negli anni ottanta lavora nel pastificio e finisce, in tempi non sospetti, per barattare il valore del suo TFR con il marchio. Una grande idea, che oggi vale il futuro di tutta la famiglia.
Giovanni, mi dicevi che prima di lavorare nel pastificio hai insegnano in Brasile.
Sono passato per San Paolo, il Mato Grosso, l’Amazzonia, ho girato tutta l’America del Sud e ho seguito a pieno, lavorando con gli ultimi del mondo, la pedagogia di Paolo Freddi. Ho trascorso buona parte della mia prima vita in Brasile e da questa terra ho attinto la forza per continuare a credere in alcuni valori fondamentali che, poi, ho cercato di trasmettere nell’impresa della pasta. Sono innamorato dell’artigianato, lavoro duro che dà una grande gioia a me e anche a tante persone, perché quando si mangia un piatto di pasta buona si è felici.
Cosa significa “pasta buona”?
Innanzitutto una semola di grano duro seria, scelta, curata, pulita, ben macinata, unita all’acqua pura. Significa trafile di bronzo ed essiccazione lenta e a bassa temperatura. Queste sono le basi di una pasta che ti fa ’rre.
E se si vuole capire il know how nella realizzazione della pasta?
Gragnano equivale a dire pasta. La memoria ci riporta a metà del Seicento, periodo in cui i napoletani erano ancora definiti mangiafoglie. Quando, poco dopo, si trasformarono in mangiamaccheroni, la pasta divenne il fulcro alimentare di ogni famiglia e ogni porta di casa era un pastificio. Via Roma, la strada principale di Gragnano, è architettonicamente concepita per l’essiccazione all’aperto. I venti che arrivano da Castellammare, dai Monti Lattari, da Amalfi, convergono lì e danno alla pasta una sapidità particolare, naturale. Il microclima riesce a dare un sapore unico a tutti i formati e, per ognuno di essi, è previsto un determinato periodo di asciugatura. Proprio la lenta gradualità del processo offre rugosità e consistenza, bisogna avere pazienza, imparare ad aspettare. Le candele lunghe, ad esempio, hanno bisogno di 4-5 giorni, i vermicelli di 24 ore.
Gragnano significa know how, quindi capacità di selezione e lavorazione, anche al di là dell’identità della materia prima. I bravi artigiani sanno cosa significa miscelare i grani, io mi rivolgo a un piccolo e scrupoloso mulino della provincia di Avellino. Per la nostra pasta è necessaria una granulometria più grossa, che le ceneri siano inferiori a un tot, le proteine minimo al 13%, che i grani siano sani, abbiano poca umidità, un bel colore, che possiedano una consistente maglia glutinica per poterla emancipare in un’ottima pasta trafilata in bronzo.
Mangiafoglie e mangiamaccheroni
Fino a trecento anni fa le principali pietanze avevano a che fare con i vegetali, le foglie, brassicacee e crucifere in particolare. La celeberrima minestra maritata è uno dei piatti più importanti della cucina mondiale e, ancora oggi, si prepara in modo rigoroso in provincia di Napoli o anche in altri luoghi della regione. Ci consegna a pieno l’idea del legame tra questa terra e i vegetali. A tal proposito, la Campania continua a essere un luogo santo per l’agricoltura. Molte zone hanno un’eredità vulcanica, e non sono solo quelle vesuviane. La zona settentrionale della provincia di Caserta, ad esempio, ha a che fare con il vulcano di Roccamonfina, così la zona puteolana e quella dei Campi Flegrei. Stiamo parlando di un territorio molto vario dal punto di vista geologico.
Su Porthos 28, nel 2007, abbiamo pubblicato un lungo articolo dedicato alla cucina napoletana, analizzando il contesto socio-economico dell’epoca, dal quale emerge molto bene l’arrivo della pasta dalla Sicilia a Napoli, proprio i siciliani sono stati i primi mangiamaccheroni.
A testimoniarlo, di seguito, uno stralcio dalla commedia La vedova (1569) di Giovan Battista Cini: il duello verbale tra Cola Francesco (napoletano, che vanta origini calabresi) e Fiaccavento (siciliano), i quali, pretendenti entrambi della mano della figlia di un vecchio veneziano, si ingiuriano così:
Cola Francesco:
Oh! Tu sta lloco? E chi pienzi parlare,
sicilianello, con qualche pezzente
pari tuo? Va, va manciamaccaroni!
Fiaccavento:
Doh, chi sia uccisu cui ti impinnazau,
cornutu! Ah? Manciau ieu li maccaruni?
Tu, mangiafogghia, tu napulitanu,
ma, per diritti megghiu, calavrisi,
Iuda, imprennasumari!
Da lì a poco i napoletani ricostruiranno un’identità sociale fortemente riconoscibile in Italia e all’estero: basterà mezzo secolo perché il mondo identifichi come “mangiamaccheroni” proprio il popolo napoletano e non più quello siciliano.
Le prime testimonianze storiche sull’uso della pasta risalgono alle colonie della Magna Grecia e della Sicilia. Nel X e XI secolo compaiono su alcuni ricettari arabi i primi riferimenti alla lavorazione della pasta secca (aspetto che fa pensare alla durata, alla conservazione), in un formato chiamato atriya. In alcuni testi dell’epoca è citata una località siciliana, Trabia, descritta come uno dei centri di maggiore produzione di atriya, destinata a rifornire persino gli stessi paesi musulmani. La Sicilia ha conservato questa posizione di dominio nella produzione ed esportazione di pasta sino ai primi del Seicento. Del resto se pensiamo alla qualità e alla varietà del grani siciliani…
La pasta, il vino, i rosati frizzanti
Tra gli anni settanta e primi ottanta, parlare dell’abbinamento con la pasta era quasi un tabù. Dilagava la convinzione che non si potesse accompagnare al vino. Era un luogo comune che dimostra la mancanza di conoscenza nei confronti di questo alimento dal sapore tendenzialmente neutro, il cui elemento centrale è la tattilità. La pasta deve la sua bellezza alla consistenza, quella che i degustatori francesi chiamerebbero sève, un termine che non ha un equivalente chiaro in italiano, forse potrebbe essere tradotto con flusso. Di certo possiamo contare sulla trama, la densità e, cosa importante, sulla diluizione del condimento.
Sensibilità della cucina significa tenere conto di tattilità, fisicità, tocco. Purtroppo, negli ultimi anni, ci hanno (dis)educato a badare alle percezioni sapide e chimiche, aprendo così a un approccio incompleto dal quale trarre solo risposte precise, semplici, immediate e misurabili, distogliendo l’attenzione dalla percezione fisica, dalla descrizione del comportamento sulla lingua di alimenti e bevande. Prendiamo in considerazione la pasta e patate: i due ingredienti hanno una radice comune – gli amidi – niente di più sovrapponibile dal punto di vista gustativo. Invece è proprio la parte tattile di ottime materie prime (le patate di Avezzano coltivate da Franco Franciosi, la pasta Gerardo di Nola, l’olio del frantoio Franci, le verdure di Pomarius per il soffritto, il guanciale di nero reatino, il parmigiano, la provola dei monti Lattari) a fare la differenza.
Abbiamo pensato ai rosati frizzanti, tipologia rara, perché ci sta a cuore restituire loro dignità. La magia nella realizzazione dei frizzanti è rappresentata dalla fermentazione naturale in bottiglia, qualcosa di slegato dai parametri enologici codificati. Tutto dipende dalle condizioni della cantina, dalla temperatura, dall’umidità e, inoltre, la presa di spuma ha a che fare con le stagioni, con l’attrazione lunare.
Frittata di maccheroni
Smilzo (uva tosca, lambrusco di sorbara e altri) 2015 Vittorio Graziano (Castelvetro di Modena)
La partecipazione gustativa è il suo aspetto centrale. È leggiadro con un tocco sfumato, dissetante, apparentemente inoffensivo, invece si fa caparbio, richiede il confronto, sfida la coltre spessa e saporita della frittata, arriva a rivelare una comune dimensione “terrosa”. Le bottiglie avevano viaggiato poche ore prima, non si è avvertita la minima smagliatura.
Exile Rosè Petillant (gamay) 2014 Jousset (Montlouis sur Loir)
Finezza, seduzione. Il gamay della Loira è quasi altezzoso con i suoi modi esili, lievi. La mancanza di una presenza materiale di fronte a un piatto così sostanzioso può indurci a pensare a un abbinamento poco riuscito. Si tratta solo di un modo diverso di illuminare il piatto: meno incontro, più contrasto.
Pasta (mescafrancesca) e patate
Brioso Rosato (sangiovese) 2015 Conestabile Della Staffa (Magione)
La gagliardia del sangiovese di collina. La nettezza della carbonica e il corpo agile accarezzano la cremosità del piatto mentre la parte acida, croccante ne attacca la consistenza. Fresco, graffiante, si spende e si mette in gioco, è inevitabile che ceda il passo alla maggiore complessità del vino parmigiano.
Malvasia rosa (malvasia aromatica di Candia e altre uve rosse) 2014 Camillo Donati (Arola)
Coinvolgente, una parte dei profumi è chiara, l’altra più organica, tuttavia non è una suddivisione netta, è piacevolmente confusa, proprio per questo capace di prendersi cura dei particolari che il primo perde. Pragmatico, generoso, tannico, l’abbinamento è una vera e propria unione di affinità che richiama, costantemente, la bevuta.
Candele con il sugo di genovese
Subconscio (marzemino trevigiano 60%, sangiovese, syrah, cabernet sauvignon, cabernet franc 40%) 2015 Roberto Marton (Conscio)
Se i primi quattro vini esprimevano una certa leggerezza, dagli ultimi due trapela, già alla vista, una maggiore densità. Il frizzante veneto è ossessivo, giovanile, dirompente, ha slancio ma trattiene tale intensità. Ha un lato sanguigno che lo unisce alla forza della carne, tuttavia sarà il secondo a prendere in mano la situazione.
Rosato frizzante 2015 Cantina Giardino (Ariano Irpino)
Ampio e concreto, corre il rischio di passare per semplice con quel lieve residuo zuccherino e le bollicine non proprio “in ordine”. Invece il tessuto è il suo valore, fatto di tante sfaccettature, il tocco mediterraneo e quel tannino irpino avvertibile che acchiappa la dolcezza del sugo, riprende la cedevolezza della carne e lo spessore tenace della pasta.