Miniature di Dicembre 2010

I vini naturali, crisi di crescita?

Sono sempre più numerose le manifestazioni e gli eventi sul “vino naturale”, al punto che dal comprensibile sfruttamento del momento magico si rischia di sconfinare nella stanchezza. Ma non si tratta solo del nutrito e ravvicinato numero di occasioni per assaggiare i vini, questo anzi dovrebbe aiutarci a capire meglio e a costruirci una credibile gerarchia di valori. Dialogando con i visitatori emerge una certa delusione perché faticano ad afferrare il senso qualitativo di molti dei campioni sentiti. A parte i soliti nomi, produttori da tempo impegnati in una condotta naturale nella vigna e in cantina, persone capaci di tenere insieme forma e sostanza, i giudizi prevalenti sono negativi. Vorrei perciò riflettere su alcuni dei motivi di questo sentimento che, solo tre anni fa, sarebbe stato impensabile.
Eccesso di severità. Sono convinto che la spontaneità e l’ingenuità, con le quali il vino naturale di solito si presenta, autorizzano i neofiti ad assumere una posizione critica che non riserverebbero a un liquido molto tecnico. L’evocazione contadina del colore e del profumo, l’apparente semplicità delle sensazioni finali, lo fanno sembrare irruento ed elementare o troppo “da cercare”. Le condizioni nelle quali si svolgono le fiere non aiutano i vini che hanno qualcosa da dire. Così, chi non ama perdersi nella confusione della probabile complessità espressiva, preferisce rifiutarla in toto, accontentandosi delle poche certezze che un campione convenzionale sa dare. È l’elemento tempo a essere sottovalutato, di rado si aspetta che il bicchiere dia al contenuto la possibilità di sbocciare.
La qualità media si è abbassata. Gli enofili navigati non provano le medesime emozioni di quando hanno scoperto i migliori vini naturali. Radikon, Massavecchia, Le Boncie, Rinaldi, Valentini, La Biancara, Gravner, Pepe, Cappellano, Paradiso di Manfredi, Cascina degli Ulivi, ecc. sono stati una rivelazione perché hanno fatto coincidere la vocazione del luogo a una collaudata scelta naturale. I loro frutti migliori sono arrivati diversi anni dopo la conversione all’approccio “organic”, come dimostrano i test su bottiglie di tre lustri orsono. Molte delle aziende accolte nelle manifestazioni più recenti hanno da poco intrapreso il cammino bio, le loro bottiglie finora non riflettono il cambiamento e, inoltre, si coglie la difficoltà a governare sia la fermentazione spontanea e sia un uso meno ossessivo dell’anidride solforosa. Se, ancora oggi, i vinificatori più esperti fanno errori di valutazione e devono rinunciare ad alcune partite di vino andate a male, potete immaginare chi, fino a qualche mese fa, ha visto lavorare solo lieviti e batteri selezionati. Le critiche più ricorrenti dei degustatori riguardano sia vini instabili e dalla fisionomia sfocata sia vini timidi e poco coinvolgenti.
Migliorare la selezione delle aziende invitate. Sono molti i produttori che si dissetano al grande abbeveratoio della naturalità. Numerosi al di sopra di ogni sospetto, altri decisamente meno trasparenti e impegnati nell’ennesima opzione di marketing. Nonostante le dichiarazioni d’intenti di organizzatori e responsabili di associazioni, non è semplice respingere una richiesta di partecipazione, in fondo basta l’autocertificazione. Considerando la lista dei partecipanti, è difficile credere anche a coloro che asseriscono di assaggiare e analizzare i campioni inviati dagli aspiranti.
È un periodo convulso e vorticoso, nel quale i produttori cercano risposte sicure e immediate mentre dovrebbero aspettare e osservare; allo stesso tempo, le persone consumatori sono portate a pensare che ogni assaggio di un vino naturale debba essere indimenticabile. In realtà, accanto a prodotti ottimi, ci sono molti vini non buoni, oppure sbagliati o soltanto mal riusciti. E poi ci sono tanti esemplari che, pur apprezzabili, non possono essere migliori di così perché vengono da posti non eccelsi – il luogo, fino a prova contraria, ha un ruolo predominante nel determinare il talento di un vino e, parafrasando un celebre adagio, se non ce l’hai, non te lo puoi dare.
Infine, attenzione alle aspettative: i vini bevibili e piacevoli non devono gareggiare con i campioni del talento e dell’emotività, non sarebbe giusto e, soprattutto, neanche naturale.

I bianchi macerati sulle bucce (e non), si somigliano troppo?
Sarà capitato a tutti gli appassionati di sentire questo commento: «’Sti bianchi sulle bucce so’ tutti uguali!» Ebbene, è probabile che, nonostante l’atteggiamento teso il più delle volte a bistrattare una scelta coraggiosa, il degustatore abbia ragione. Il punto è che quella stessa persona non ha mai fatto la stessa considerazione di fronte a vini bianchi prodotti in Friuli Venezia Giulia, Liguria e Sicilia che potrebbero provenire da Marche, Lazio e Umbria. Questi esemplari di una vuota convenzionalità alla prima “snasata” possono offrire un sentore diverso: mela, banana, ananas, confetto o pera, ecc. Il problema è che dopo un paio di minuti, il medesimo degustatore è già impegnato al tavolo successivo e non può constatare come quello stesso bianco “apolide” si disintegra o si cristallizza sotto la sicura campana del metabisolfito. È vero, i bianchi macerati sulle bucce meritano attenzione e pazienza, e noi sappiamo che, neanche nelle degustazioni che assegnano i premi, i professionisti dedicano il tempo necessario a capirli, ma il problema non è questo. La differenza tra due vini ottenuti con la stessa tecnica – pressatura soffice o vinificazione tradizionale – dipende dalla competenza con la quale è stata interpretata. Anche la statura della materia prima, così centrale ogni volta che si parla di qualità, può essere messa in discussione se si è adottato un metodo esclusivamente per emulare il successo di un collega o solo perché è di moda.
Reduce da un periodo intenso di viaggi e degustazioni, posso testimoniare di aver incontrato bianchi anemici, capaci di evocare i fasti del Galestro, e “gialli” (quasi ambra) pesanti e monocordi: due espressioni, all’apparenza opposte, accomunate dalla stupidità.