Nino Di Costanzo

Gaetano (Nino) Di Costanzo è giovane e determinato, ma sa anche guardarsi allo specchio. Ve ne accorgerete leggendo le sue parole, raccolte a Ischia nel maggio scorso.
La sera prima ci aveva ospitato allo chef table del Mosaico, il ristorante “gourmet” del Terme Manzi, storico hotel ischitano resuscitato con sfarzo dai fratelli Polito, i proprietari di Imperatore Travel, il maggior tour operator dell’Italia meridionale.
Non vi raccontiamo i piatti, nel frattempo sono già cambiati tutti quanti, ma vi invitiamo a guardare il servizio fotografico, che tenta di raccontare luoghi e persone.

Mattina tardi, siamo seduti in giardino, davanti ad un caffè. La conversazione parte, ovviamente, dall’hotel che ci ospita.

Qui ci sono le migliori acque termali d’Italia. La posizione è molto fortunata. Nel ’55 un terremoto buttò a terra mezzo albergo, e poi è stato rifatto. Già era un grande albergo; poi fu preso da Rizzoli negli anni ’70. Gli ultimi anni – prima che lo comprasse la proprietà – era fatiscente. Questo nasce come un albergo del benessere, non di mare: si punta sulla ristorazione e sul benessere. Ora stanno iniziando a demolire le camere: da 60 si arriverà a 47-48. C’è più richiesta di suite che di camere. Chi ha i soldi se ne frega di spendere 3.000 euro a notte e vuole la stanza grande, sfarzosa.

D: Uno dei grandi problemi in Italia.
R: A parte qualche grande albergo a Roma, ma quello è un mercato completamente diverso. Dall’11 settembre è cambiato tutto. Negli anni ’70-’80 veniva gente a Ischia che spendeva i miliardi. Mi ricordo che c’era un vecchietto di Firenze che veniva a Ischia un mese e spendeva in media 300-350 milioni. Erano lui, la moglie e la badante. Comprava 30-40 scarpe per le nipotine, fatte da Paciotti su misura.

D: In realtà sembra che i ricchi siano in aumento.
R: L’ho visto a Mosca ma non sono veri ricchi. Sono arricchiti. Basta che un vino costi tanto, e per loro è buono. C’erano dei clienti russi che mi chiedevano l’olio più caro per comprarlo; non il più buono. Perché devono andare a Mosca e dire che hanno speso 100 euro per una bottiglia d’olio. Ho visto che buttavano i soldi.
Una volta è venuto un Napoletano. Ha preso il menù degustazione senza neanche guardarlo; sono 12-13 portate. Per quanto riguarda la pasta, non posso farti 10 tortelli o mezzo chilo di fusilli, altrimenti arrivi ai secondi e sei finito. Lui voleva un astice intero spaccato a metà. C’è gente che sbaglia locale. Una volta un cliente mi ha chiesto una pagnotta con la mortadella da portarsi in spiaggia! In generale, i veri ricconi non sanno mangiare; chi sa mangiare è l’appassionato. Gli attori, i calciatori, li ho visti mangiare, un disastro.

D: Non c’è questo automatismo che più soldi hai e meglio scegli.
R: No, assolutamente. Girando i grandi ristoranti a Londra, Roma, Saint Moritz, così l’ho vista.
Tanti ristoranti di qualità sottolineano l’importanza della materia prima, ma poi aprono il catalogo di Selecta e via.
Penso che oggi sia più importante la ricerca della materia prima che la preparazione; è fondamentale trovare piccole aziende che fanno poco ma bene, che non usano prodotti chimici.

D: Ma la materia prima di altissima qualità non toglie un po’ di ruolo a voi cuochi?
R: Oggi è più difficile trovare una mozzarella fantastica con continuità che un grande chef. La carenza di qualità dei prodotti arriva ad essere una mancanza anche nei ristoranti più famosi.

D: Quando parli di materia prima, pensi a prodotti generalmente locali?
R: Di locale, ho il pesce, qualche verdura, qualche coniglio. Il fassone lo prendiamo in Piemonte. Due anni fa ho fatto il giro della Sicilia e ho trovato cose buonissime, due oli fantastici. Prendiamo i salumi da Berardino Lombardo. Era uno pieno di soldi e si è messo in montagna tipo un eremita. I maiali ce li ha buttati allo stato brado. Sta riscoprendo anche della frutta scomparsa: la mela alla vaniglia, la prugna amara. Quello è il bello: ricercare, trovare piccoli produttori, con la tua stessa filosofia, che non usano prodotti chimici, che facciano qualità. Metto in tavola solo quello che vorrei mangiare io, a costo di alzarmi la mattina alle sette e di andare a dormire alle due. Per questo diventa fondamentale avere a fianco persone che comprendono e seguono i tuoi progetti, anche a prezzo di grandi sacrifici.

D: Che cosa pensi della ferrea gerarchia e della violenza nei rapporti dentro alcune cucine?
R: Questo lavoro può essere fatto in due modi: una strada è la ristorazione comoda, di mediocre qualità e di alti guadagni; l’altra è fatta di alta qualità, difficoltà, stress, scarso guadagno e tantissimo lavoro. Se scegli la seconda, il percorso è tutto in salita. Oggi il problema è trovare persone che amano la salita. Un capo partita da Marchesi guadagna 1.000 euro al mese; a Rimini ne guadagna 3.000. Questo non può essere considerato solo un lavoro: è una passione. La soddisfazione è regalare belle sensazioni a chi sta a tavola. Ora stiamo avendo difficoltà a trovare un pizzaiolo.

D: A Ischia è difficile trovare un pizzaiolo?!
R: Ma sai perché? Io la pizza la voglio interpretare in modo diverso: voglio una focaccia. Una volta cotta, ci metto l’olio a crudo, il pomodoro crudo, la mozzarella a crudo. Devo sentire tutti gli ingredienti. A volte arrivano dei pizzaioli che mi dicono: “Io so fare 300 pizze a sera”. Io rispondo: “Qua ne devi fare 30, ma voglio che metti anche la foglia di basilico perfetta”. E mi prendono per fulminato.
Il titolare spesso mi dice che sono un tiranno.

D: Nel senso che sei duro con i ragazzi? Io invece ieri ho avuto l’impressione di una cucina organizzata.
R: No, un tiranno perché per me esiste solo lavorare il meglio possibile, uscire della cucina con la coscienza a posto, non truffare il cliente.

D: Quindi una struttura come questa per funzionare ha bisogno di un ordine gerarchico.
R: Sì, e non vale solo per i ristoranti. Servono regole. I ragazzi lo sanno: fuori ci si può divertire, ma la mattina dopo sono ancora più esigente. Dentro bisogna produrre. Fuori dal lavoro mi serve il compagnone, dentro il professionista; va bene anche se è una persona chiusa. Se i cuochi non sposano la mia mentalità di lavoro, io non posso lavorare.
I miei sous-chef sono Massimo e Sebastiano, due ragazzi che mi danno soddisfazioni bellissime. Non li vedo come miei secondi, ma come collaboratori, sullo stesso livello. Decidiamo e viviamo le difficoltà insieme, perché poi non vivi solo il complimento. La cosa bella è che sono entrati completamente nella filosofia aziendale. Se loro vedono un piatto che non va bene, lo bloccano. Non si può vedere tutto in cucina, non si hanno 100 occhi. Io posso dire di averne sei; è fondamentale per esercitare il controllo in maniera completa su cucina, cuochi, pulizia e lavapiatti.

D: Ma è sfiancante anche per chi esercita il controllo.
R: Certi clienti dicono: “Questa è una sala operatoria; non è possibile che voi lavoriate in un ambiente così pulito. Vuol dire che non lo utilizzate”. Dietro c’è un lavoro pazzesco. La sera ci sediamo sullo chef table e cominciamo a guardare la cucina. Dietro l’apparente perfezione c’è un grande lavoro. togli la zampata e la ditata di qua, metti a posto di là.
In cucina ho avuto uno che è durato mezza giornata: è arrivato alle 8 del mattino e se ne è andato alle 6 del pomeriggio.

D: E che cosa aveva fatto di così…
R: Eh, niente. Questo è il punto!

D: Mi affascina molto che voi lavoriate per una cosa effimera.
R: E’ come la fede. Significa credere in qualcosa che non tocchi e non vedi. Hai solo la soddisfazione di aver fatto bene.
Comunque, l’altro giorno parlavo con Gaetano Trovato. Penso che sia uno dei grandi della cucina italiana, una persona vera. Anche lui ha difficoltà a trovare personale, ha due stelle Michelin… Figuriamoci noi! Oggi è la passione che manca.

D: Gaetano Trovato è uno che appare poco.
R: Io andrei a mangiare 10 volte al mese da Trovato e non da Ducasse, perché ormai Ducasse è diventato un imprenditore. Gaetano Trovato è uno che dalla mattina alla sera sta in cucina. Io lo chiamai per chiedergli di fare uno stage e lui mi ha messo subito a mio agio. Poi quando è venuto da me a cena ed è rimasto contento, per me è stata una spinta in più per fare bene.

D: Sono venuti anche altri chef?
R: Sì, molti.

D: E che ti dicono?
R: Mah… la prima cosa, mi dicono: “Tu sei fulminato!” Perché vedono arrivare sette assaggini o un post dessert che è un vassoio con 30 cose e dicono: “Tu veramente c’hai problemi mentali!” Per me abbinare a un buon piatto una bella presentazione è un valore aggiunto.

D: Questa figura del cuoco diventato star da un lato è sinonimo di emancipazione, ma dall’altro… insomma, il tempo per cucinare lo devi avere.
R: Eh sì. Guarda Vissani. Fui chiamato alla Rai per presentare una rubrica. Lui ora comanda il food alla Rai. Quando sono andato, mi ha trattato malissimo, perché vuole essere prima donna. Un cuoco non si deve credere il Padre Eterno.

D: Ma è colpa anche della stampa.
R: Sì, questo lavoro è diventato moda anche perché spinto dalla stampa. E anche i soldi danno alla testa. Ho saputo che Adrià ha chiesto 250.000 euro per un matrimonio di 50 persone! ‘Sti cuochi sono dei grandi, perché fanno i soldi con una materia prima scadente: ti danno il boccadoro e lo sgombro a 50 euro. Io esco pazzo per trovare un branzino fresco e spendo 60 euro al chilo, quando loro ne spendono 3. Io non lo so fare, forse perché non ho l’autorità per impormi.
Le alici al mercato te le regalavano quando compravi una spigola. Ora costano 40 euro. Stessa cosa è successa in Spagna con le angulas: piccole anguille che venivano buttate, poi rilanciate dai ristoranti giapponesi. Ora costano 150 euro a porzione. I Giapponesi fanno piazza pulita. Come col tonno rosso. Adesso si stanno anche comprando le tonnare in Sicilia e Sardegna. Su 10 pesci, 2 rimangono in Italia, 8 vanno in Giappone.

D: E coi pescatori come te la cavi?
R: La mattina alle 7 sto dai pescatori, perché già alle 8.30 troverei i primi scarti. A volte sono ancora chiusi. Siccome alcuni sono miei parenti, li chiamo a casa!
Io il pesce lo voglio vedere intero. Nei crostacei, per mantenerli, si mette un po’ di polverina, ma io li voglio senza, perché l’ammoniaca si sente. Ogni tanto tentano di truffarmi – è l’Italia. Chiedo di mandare il pesce che avevo scelto poco prima, ma non è lo stesso: dopo 10 minuti gli torna indietro. Ecco perché questo lavoro diventa difficile.

D: Così condizioni i fornitori.
R: Sì. Mi dicono: “Com’è che nell’isola vendiamo a 100 ristoranti e abbiamo problemi solo con te?!”

D: Quando hai iniziato?
R: A 14 anni e mezzo. Mio padre diceva: “Vai a fare il bagno. Hai tempo per lavorare”. In famiglia nessuno faceva questo lavoro. Mio padre voleva che facessi il ragioniere: imbrogli la gente, fai i soldi, vita tranquilla.

D: Da dove è nata la tua scelta?
R: Come una vocazione. Ti senti una cosa dentro che non puoi toccare: è passione.

D: Hai cominciato a Ischia?
R: Sì, poi ho fatto la prima esperienza fuori a 16 anni ed è stato un trauma. All’estero, nell’alta ristorazione, si lavorava il doppio, ti usciva il sangue dal naso per la fatica. Poi magari ti spari anche un chilometro a piedi perché il pullman non c’è! Quando vai a fare ‘sti stage nessuno ti dà una lira. Da Arzac è stato osceno: l’ultimo giorno – dopo aver lavorato un sacco di tempo gratis – ho mangiato lì e mi hanno fatto pure pagare. In Belgio mi è successa la stessa cosa. Io non lo dico in giro, perché mi prendono per scemo!

D: Ma almeno hai imparato da Arzac?
R: Sì, s’impara sempre qualcosa. Ho lavorato anche con Gaetano Trovato. Con lui ho un rapporto molto bello. Perdevo tantissimo tempo a parlare non tanto dei suoi piatti, quanto della sua filosofia di lavoro. Per me è stato un maestro di vita.
In Francia in cucina eravamo 110 per fare 20 coperti a 2 stelle Michelin e 200 all’altro ristorante. Io ero l’unico Italiano. Mi facevano cose pazzesche, ma io ho sempre dimostrato di voler lavorare tanto e bene. Il Meridionale avrà tanti difetti, ma quando esce, lavora tanto. Mi salavano e sporcavano la roba per darmene la colpa. Ma a me interessava imparare. La sera facevo il resoconto della giornata e traevo conclusioni positive.
D: Si può creare una brigata senza questo genere di cose?
R: Solo con persone intelligenti.

D: Si tende a far passare tante volte l’arte, la creatività di questo lavoro. Andrebbe però fatto capire anche quello che c’è dietro.
R: Sì, perciò dicevo di Arzac: non l’ho mai visto in cucina. Però si è creato un’immagine. E la vende cara. Il cuoco è quello che sta in cucina, non chi punta sull’immagine, chi fa consulenze e va in tv. Da un lato è bello, come per noi l’articolo(1) di ieri, ma…

D: Ma quell’articolo aveva un taglio più sul ristorante che sul cuoco: è una recensione classica.
R: A me non interessa che parlino di Di Costanzo. Mi interessa che il messaggio che mando venga capito. Io voglio fare qualcosa di buono per l’albergo e soprattutto per l’isola. La pubblicità del mio nome, la stella, la presenza in una guida fa piacere, ma l’obiettivo aziendale è fare stare bene chi viene da noi, fare qualcosa di diverso e migliore dal punto di vista qualitativo. Io non mi sento mai soddisfatto: l’insoddisfazione perenne ti porta a migliorare.

D: Al di là dell’ansia personale.
R: No, non è ansia; è capire i propri difetti. Voglio che la notorietà si esprima col piatto. Ognuno di noi deve ammettere i suoi limiti. Vado spesso in sala a chiedere ai clienti come è andata la cena, perché bisogna essere consapevoli dei propri limiti e mettersi in gioco. Ho sempre paura di aver sbagliato qualcosa. Il grande chef invece pensa che il suo piatto sia legge: non puoi fare una critica. Mentre a me, se è costruttiva, fatta da un esperto, fa piacere. In cucina faccio la stessa cosa. Dico ai cuochi: “Se vedete qualcosa che non va, ditelo; basta che lo motiviate”.

D: E viene fuori qualcosa o sono intimoriti?
R: A volte non capiscono neanche loro. Mangiano… “Ah sì, è buono, buono!”; e io: “Ma aspetta, devi capire se il piatto è equilibrato.”

D: Che cosa vuol dire “piatto equilibrato”?
R: Un piatto che ha tutti i componenti giusti: fragranza, colore, croccante, acido. Affinché il palato dica: “Bè, la cosa va bene!” Tu, per esempio, puoi mangiare una bella lasagna del Sud, piena di uova, polpette. Il palato dice va bene, ma non riesce a capire quello che mangi. Invece se fai una lasagnetta montata al momento, ogni strato ci metti qualcosa di particolare, il pomodoro crudo… riesci a capire quello che stai mangiando. Ieri nell’assaggino mettevo aceto balsamico perché era carente di acidità. Nel bicchierino storto c’era ananas cotto nello zucchero, yogurt di bufala e frutto della passione. Se mangi una cosa alla volta vieni in cucina e mi picchi. Se mangi tutti e tre assieme, riesci a capire che cos’è l’equilibrio: quando riesci a distinguere la singola cosa che stai mangiando. Ma allo stesso tempo deve essere in un’armonia complessiva. L’equilibrio è anche dare il giusto colore; l’altro giorno sono venuti dei fotografi esperti di food: sanno aggiustare tutto.

D: Sono stato quest’inverno nella redazione di una casa editrice che fa solo food. E il loro fotografo era una specie di divinità.
R: E’ come una cantante in playback anziché dal vivo. Quando montano negli studi fanno miracoli. Ho sentito Britney Spears dal vivo, era da prendere a sassate in faccia.

D: Qual è lo sviluppo professionale di un cuoco? Ti sazi di “stelle”?
R: No, non ti sazi, è un premio. Non ti ripaga, ma ti dà più motivazioni. Ieri l’articolo è stato una doccia fredda in positivo, come una pacca sulla spalla che ti aiuta a fare di più.
La felicità è avere un riscontro da chi sta a tavola; il sorriso del cliente. Preferisco un cliente soddisfatto a una stella o a un milione di euro: ti ripaga di tutti i sacrifici che hai fatto.

D: Prima parlavi della pizza: come la vorresti inserire nel menù?
R: Noi abbiamo questo ristorante che è un gioco, che non ci fa guadagnare. Di là c’è il ristorante dell’albergo, che fa andare avanti la struttura. Noi dobbiamo anche sopravvivere. Nel contesto del ristorante tradizionale ti mangi anche la pizza.

D: La cucina dell’albergo è importante.
R: Noi la vediamo come la vera tavola. Là ti devi mangiare il coniglio, una pizza fatti veramente buoni. Noi, pelati in cucina non ne usiamo. Abbiamo pomodori qua che sono buonissimi, della zona del Vesuvio.
I fornitori a volte hanno un’ossessione pazzesca. Io da ora fino a ottobre voglio il branzino sempre uguale. Su 100 clienti, tutti devono mangiare un grande branzino. Anche il fatto dei prodotti locali. Noi puntiamo molto sui prodotti del Sud. Ma ad esempio una volta abbiamo fatto una ricerca sulla chianina. Siamo andati in Toscana, ad Arezzo. Siamo stati da uno che aveva una buona chianina: buona, ma non ci ha dato grandi risultati. Poi ho provato la podolica, e sappiamo tutti che è più adatta per il latte che per la macerazione della carne. Poi ho trovato questo mezzo fulminato di Oberto. La prima volta che ho visto la sua carne. era nera, brutta, frollata 40 giorni. Ho tolto la scorza: l’interno ti dava sensazioni straordinarie. Mi dissi: “Mi devo staccare un po’ dal prodotto del Sud.” Sai quante volte gli ho chiesto di mandarmi un pezzo da 3 chili, e lui: “Non ce l’ho”; “Ma come?”; “E non ce l’ho, sta frollando”.

D: Quindi il localismo può anche diventare un limite.
R: Sì, il ristorante di qualità è anche quello che non ti dà sempre continuità. Ad esempio, in una settimana mi capita di avere lo scorfano una sola volta, quando potrei averlo tutti i giorni, prendendo quelli dal Marocco, dalla Tunisia. Se vedi uno scorfano locale e uno del Marocco, sono uguali, due fotografie. Uno arriva nel cartone col ghiaccio sintetico dalla Tunisia, uno pescato qua ancora con l’amo in bocca. Qualche differenza ci sarà…
Stesso fatto: mangia un pesce del Mediterraneo e uno dell’oceano. Il Mediterraneo sarà più sporco, ma è molto più salato; il pesce è totalmente diverso, magari ha mangiato vicino allo scoglio, ti esprime delle sensazioni bellissime.
Adesso c’è la moda della pezzogna (besugo, occhione). Tutti i ristoranti in Campania c’hanno la pezzogna. Ma è roba tunisina, marocchina. Qua è difficilissimo trovarla. La continuità è un problema grosso. Penso sia anche sinonimo di garanzia che al ristorante ti dicano: “Oggi questo non c’è”. Il mare non ti dà la continuità della terra. Qua se becchi due giorni di brutto, devo chiudere il ristorante. Il pesce lo trovi, ma d’importazione.
L’altro giorno dovevamo fare le riprese con i pescatori; proprio quel giorno ha fatto brutto. I cameraman dicevano: “Andiamo lo stesso, facciamo finta”. Ma io non faccio finta. Se quel giorno il pesce non l’ho trovato, neanche la foto mi puoi fare! Non l’ho trovato punto e basta. Prendere in giro i commensali è prendere in giro se stessi. Bisogna essere seri e leali.
Il torrone lo compriamo: è buonissimo. Potrei dire che lo faccio io. Come i fichi secchi, li fa mia mamma. Vengono tagliati, li fa essiccare al sole sulla ginestra: è un lavoraccio. Li devi girare due volte al giorno.
Altra cosa che voglio fare è togliere il cioccolato fondente dal carrello, perché è banale. Voglio mettere torrone, fichi e frutta sotto alcol. Avere dell’alcol fatto da un contadino di contrabbando, distillato in casa. Il fatto di truffare e farsi questa immagine di grandi re della cucina, non ci tengo a farlo.
Stamattina sono andato in pescheria e loro: “Ecco, sta arrivando!” Quando vedono me, vedono il peccato universale, quello che dà fastidio. I pescatori portano 200 casse di pesce? 3 pesci vanno bene! Mi chiedono: “Ma è possibile che a te non va mai bene niente?!” Non è quello; si tratta di scegliere la cosa che ti stimola di più.
Dalla mattina alla sera c’è un via vai di rappresentanti di salumi con i cataloghi: 300 tipi di prosciutti, 300 tipi di salami. Già quando vedo i cataloghi, mi vengono i brividi: pubblicità, grande distribuzione. L’altro giorno venne Galbani, che adesso vuole fare qualità. Ma tu, con 150.000 prosciutti al giorno che vendi, qualità non ne puoi fare.

D: E la domanda finale è: chi ve lo fa fare?!
R: Ci sono soddisfazioni personali che ti ripagano di tutto. Forse non avrò mai soldi nella vita, però sono soddisfatto. Di questa serenità, di me e della mia filosofia parlano solo i miei piatti.

(1) Un articolo di Mario Fiore, apparso sul Corriere in quei giorni.