Le lettere incise

Non si può parlare di un luogo, di una persona, di un vino solo per il loro aspetto positivo. Comprendere per poi condividere necessita dello scontro col negativo, in questo modo è possibile costruire un ricordo che non sia solo effimera evocazione ma nostalgia nel senso più autentico del termine: dolore per la percezione di ciò che è lontano da te in quel momento e di cui vorresti ancora avere esperienza. Di conseguenza, come nella differenza tra un vino equilibrato e un vino armonioso, il senso di un’esperienza cambia in base all’intensità dei ricordi, e quasi sempre quelli che sembrano più vicini nel tempo sono quelli meno positivi.
Quando quest’anno prenotai una piccola vacanza ad Ischia per il primo fine settimana di luglio, avevo già in mente un itinerario preciso. Di solito nei viaggi, per la mia mania di perfezionismo e la sindrome da “coccinella” mancata, mi impongo come capogruppo e suggerisco agli altri itinerari, luoghi, cibi. Questa volta si sono aggiunti i vini. Mi ero riproposta di definire quel fine settimana ischitano come il mio primo vero viaggio “enologico”, o meglio, il vino era il filo di Arianna che doveva legare il tutto. Non è andata proprio così. In realtà il mio incontro con il vino di Ischia ha scombussolato le mie convinzioni sul turismo enologico, nel senso più maledettamente radical chic del termine e, col senno di poi, posso dire di aver imparato qualcosa.
Mi era stata suggerita una cantina da visitare: Giardino Mediterraneo. Ovviamente il mio già citato delirio di onnipotenza mi obbligava, prima della partenza, a reperire quante più informazioni possibili sull’azienda, sulla sua storia, sui produttori e soprattutto sui vini. Bene! – mi dico soddisfatta poco prima di partire – so quasi tutto! Posso partire tranquilla.
Mi sentivo come un giovane Mario Soldati al femminile, curiosa ed eccitata, attenta a non tralasciare nulla di ciò che si sarebbe palesato davanti ai miei occhi, dentro il mio naso, sotto il palato. Ero sicura che lì, da qualche parte, anche io avrei trovato qualche vino “perduto”. In realtà non ho incontrato vecchi seduti su ceppi di legno, né tantomeno ho giocato con loro a bocce all’ombra di alberi secolari (presunzione di giovane inesperta esploratrice enologica). In compenso ho trovato un volto giovane, un sorriso disarmante e due vini di cui è possibile sentire la nostalgia.
Ad accogliermi è Michele D’Ambra, uno dei fratelli che qualche anno fa ha ereditato dal padre circa un ettaro di vigna coltivato a Biancolella e Per’è Palammo. Sta pulendo le sterpaglie sulle terrazze di Giardino Mediterraneo. Bisogna darsi da fare un po’ in tutto in quell’azienda, trovarsi tra capo e collo una realtà del genere da portare avanti non è semplice, soprattutto per chi, fino a qualche anno prima, non sapeva neanche che cosa fosse la solforosa. Corrado D’Ambra, il padre, era invece uno che di vino se ne intendeva. Socialista d’antan, architetto fuori luogo, innamorato di Ischia, contava mezza muraglia cinese di parracine(1) (20.000 Km) che partiva dalla cima dell’Epomeo e finiva sulla sabbia e sul mare. Studioso di maioliche votive, era convinto che la ricchezza dell’isola era nelle oltre settecento cantine e costruzioni antiche scavate nel tufo e nei vigneti a strapiombo che le circondano. Salvò, con lo zio Mario, l’azienda di famiglia per poi uscirne ed acquistare una cantina (quella annessa appunto all’attuale Giardino Mediterraneo) del 1805 che stava per essere abbattuta e trasformata in monolocali. Quest’ultima, in segno di riconoscenza (qualità spesso manchevole negli umani), gli fa scoprire tra i rovi una grossa pietra con su incise tre lettere: “CD’A”. Forse Corrado D’Ambra?
Faceva le cose convinto che dovessero essere episodi di una storia più ampia, di un territorio più consapevole e conosciuto.
Questo mi racconta Michele mentre butta la pasta e si sente odore di menta.
Ci troviamo sulla terrazza dell’azienda, nella piccola osteria, a circa 150 metri sopra il livello del mare. Il terreno è scosceso e siamo saliti con la monorotaia. Il vigneto dell’azienda, il Giardino di Odette, si presenta come tipico dell’isola e come tale rivela tutto il fascino e le difficoltà delle cose che sfidano un po’ la legge di gravità. A un primo sguardo sembra che quelle viti stiano per saltare giù da un momento all’altro, come se volessero anche loro partecipare alla libera dinamicità del paesaggio. In realtà le divisioni irregolari dei muri a secco, dei fossati, dei cellai, testimoniano le tradizioni agricole dominanti, tenendo tutto ben fermo nel terreno e nel tempo.

Le bottiglie prodotte dai giovani fratelli D’Ambra non seguono i protocolli delle vinificazioni naturali, ma non ero in cerca di quello e l’assaggio si rivela subito interessante.
Ho bevuto solo su due delle cinque etichette che dal 2003, anno della prima vendemmia, Giardino Mediterraneo produce.
Il primo: Ischia Biancolella DOC, anno 2006. Appare subito brillante, di colore giallo paglierino acerbo dalle sfumature verdognole tipiche di un bianco giovanissimo. Al naso il salino entra prepotente insieme a odori fermentativi meno invadenti; si affacciano note vegetali come peperone verde e foglie di scalogno fresco, c’è anche un bel richiamo alla calce. Lo assaggio. Ritorna il mare, un’acidità che mi lascia la bocca pulita e fresca. In fondo, erbe aromatiche come rosmarino, origano, timo. Questa è Ischia – mi dico – Ischia in bocca, sulla lingua, sul palato. Un vino che non potrà sfidare il tempo, ma non gli si chiede di certo questo. Il senso del Biancolella di quest’azienda è richiamare certi paesaggi e certe sensazioni, accompagnare i prodotti del mare con qualcosa che lo rappresenti. Dopotutto dovrebbe essere lo scopo più alto per un vino così concepito.
Il secondo assaggio rivela più sorprese: Ischia Per’ ‘e Palummo DOC, 2800 bottiglie contro le 9000 del precente. Ci sarà un motivo – mi dico. Vino ottenuto dalle uve di piedirosso tipiche dell’isola, stupisce per la sua suadente sobrietà.
Colore rubino brillante, affascinante all’olfatto per le sue note aromatiche molto particolari, spezie raffinate che tornano anche all’assaggio: pepe nero, anice stellato, coriandolo e poi quelle più tipicamente mediterranee dell’isola che persistono sul palato anche dopo qualche secondo e che avvolgono la bocca nella sua totalità. Da non crederci – penso – dopotutto anche questo è del 2006!
Evidentemente ci sono vini che hanno una doppia anima dentro, un’anima giovane e vecchia allo stesso tempo. Questo è uno di quelli. Mi è piaciuto molto, osa perché si presenta per quello che è: figlio di una terra minerale, con una eleganza e una discrezione che si legge nei volti della gente di mare.
Chiaramente la raccolta delle uve dell’unico ettaro di vigna non è sufficiente per produrre le circa 13.000 bottiglie annue. L’azienda acquista infatti le uve da cinque contadini dell’isola retribuiti, ci tengono a sottolineare, a pianta e non a chilo.
Le altre tre etichette dell’azienda sono Il Giardino di Odette (Bianco DOC), Il Giardino di Angelino (Rosso DOC) e il Giardino di Matilde. E’ ancora difficile trovarle fuori dal loro piccolo circuito campano, ma ci stanno lavorando.
Quando a tardo pomeriggio scendo tra le terrazze del vigneto, sento un po’ di quell’amarezza che sale quando si lasciano luoghi che ti hanno dato emozione e si salutano le belle persone.
I vini, in fondo, sono episodi di spazi vissuti.

“Mi verrà il mal d’Ischia…” – mi dico da sola mentre fotografo goffamente i grappoli ancora acerbi.

(1) Muri a secco tipici dell’isola