
10 Giu Respirare insieme
Il primo giorno di riapertura dei confini provinciali sono andato a Cupramontana a prendere il vino da Corrado e Valeria e da Alessandro e Daniela. Un sole meraviglioso splendeva sulle colline in primavera. La geometria della campagna marchigiana è impressionante, come la precisione con cui sono stati piantati gli ulivi, a occhio circa due metri di distanza l’uno dall’altro. Mi è venuta in mente una classe di studenti, ora che non possono stare vicini, ognuno distante ma con una pianta come “compagna di banco”. Forse è solo una provocazione ma perché oltre alla didattica a distanza non si è pensato a sperimentare scuola e università all’aperto? Almeno in territori come i nostri dove è possibile trovare spazi ampi, raggiungibili e già praticamente organizzati.

Mario Giacomelli, da Presa di coscienza sulla natura, 1977-2000 – Campagna marchigiana – courtesy Archivio Mario Giacomelli, Senigallia – fonte Artribune
L’inadeguatezza nasce anche dal senso di separazione che viviamo in ogni attività che facciamo. A cominciare proprio dal respiro. Tre anni fa ho iniziato a soffrire di acufene, un fischio continuo nelle orecchie che ancora mi accompagna e che oramai ho accolto come amico. I primi mesi sono stati tremendi, non riuscivo a dormire né a tenere sotto controllo l’ansia. Le medicine, come spesso accade, non hanno avuto alcun effetto. L’otorino specializzato nella TRT (Tinnitus Retraining Therapy) mi spiegò che il sistema limbico aveva catalogato quel fischio come un pericolo che metteva in allerta tutto il resto del corpo. Il fatto di esserne razionalmente consapevole non serviva a nulla: pensiamo di poter controllare le nostre azioni attraverso il cervello, come fosse il capo (nomen omen) del nostro corpo ma non è affatto così. Oltre alla terapia psicologica, ho iniziato a lavorare sul rilassamento dei muscoli e sul ritmo del respiro. Ma quello che rende più efficace la TRT è l’ascolto, durante la notte, dei suoni della natura. L’otorino mi ha raccontato che ognuno sceglie i suoi: chi lo scorrere di un fiume, chi il canto degli uccelli, io ascolto il suono della pioggia e dei temporali registrati in una foresta. La grande maggioranza di pazienti colpiti dagli acufeni vive in città e aree metropolitane. La separazione più grande avvenuta negli ultimi due secoli è proprio quella tra città e campagna.
Il filosofo Emanuele Coccia in un articolo uscito durante la pandemia ha scritto che «la città è, per definizione, uno strano teatro che ci ha permesso di coltivare l’illusione che per vivere assieme non abbiamo bisogno di nessun’altra forma di vita: basta riunire donne e uomini attraverso pietre e metallo per poter divenire eterni. La città è soprattutto una forma di monocultura (umana) che respinge fuori di sé tutto quello che non le somiglia, in quella che chiamiamo ancora oggi foresta. Il nome foresta (dal latino foris, cioè fuori) che ci ostiniamo a pensare come la casa naturale degli esseri naturali, è solo l’espressione di questa ‘forclusione’: è il luogo in cui si raccolgono gli esclusi, gli esiliati dalla città. Foresta, andrebbe tradotta, letteralmente con ‘campo profughi’. Quindi ogni volta che pensiamo alla foresta come luogo naturale per gli alberi, gli animali, i batteri, i virus, diciamo che i non-umani devono vivere in esilio»3.
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3 Emanuele Coccia, “Rovesciare il monachesimo globale”, 28 aprile 2020 http://www.che-fare.com/coccia-monachesimo-globale/