Calice Luce

Respirare insieme

Mi sento quasi in colpa ad aver riaperto la vineria. Certo è stato bellissimo rivedere i tanti clienti, divenuti oramai amici, riempirci di affetto e stima. Non mi sono mai sentito un commerciante e penso che la nostra sia prima di tutto un’attività di cura. Il vino è uno splendido mezzo che può consolare e illuminare anche i periodi più bui. Ma percepisco il peso dell’inadeguatezza di quel che sto facendo. Il 18 maggio è ripartito quasi tutto: cantieri, industrie (che in realtà non si sono mai fermate), esercizi commerciali, tranne asili, scuole, università, attività culturali. Di bambini e adolescenti neanche si parla, se non per condannarne la vivacità e la promiscuità. Di quanto sia essenziale, soprattutto per loro, la prossemica: la comunicazione non è solo ciò che diciamo, le parole sono una percentuale minima. La comunicazione vera e propria è fatta di gesti, sensorialità, movimenti del corpo, vicinanza.
Il primo giorno di riapertura dei confini provinciali sono andato a Cupramontana a prendere il vino da Corrado e Valeria e da Alessandro e Daniela. Un sole meraviglioso splendeva sulle colline in primavera. La geometria della campagna marchigiana è impressionante, come la precisione con cui sono stati piantati gli ulivi, a occhio circa due metri di distanza l’uno dall’altro. Mi è venuta in mente una classe di studenti, ora che non possono stare vicini, ognuno distante ma con una pianta come “compagna di banco”. Forse è solo una provocazione ma perché oltre alla didattica a distanza non si è pensato a sperimentare scuola e università all’aperto? Almeno in territori come i nostri dove è possibile trovare spazi ampi, raggiungibili e già praticamente organizzati.

Mario Giacomelli da Presa di coscienza sulla natura 1977 2000 Campagna marchigiana courtesy Archivio Mario Giacomelli Senigallia
Mario Giacomelli, da Presa di coscienza sulla natura, 1977-2000 – Campagna marchigiana – courtesy Archivio Mario Giacomelli, Senigallia – fonte Artribune

 

In questi mesi abbiamo seguito con solerzia i bollettini, i grafici, la scienza dei dati e dei numeri, delle raccomandazioni individuali ma non siamo ancora in grado di ascoltare i consigli dei nostri scienziati migliori. Come Stefano Mancuso che ripete continuamente quanto la semplice presenza delle piante possa aiutare bambini e studenti a mantenere la concentrazione e migliorare l’apprendimento. O quanto le piante siano importanti negli ospedali, non certo per un vezzo estetico ma per l’efficacia delle cure sui pazienti. Nelle Marche hanno costruito un Covid Hospital, già chiuso e rimasto praticamente inutilizzato, davanti a un centro commerciale. Ogni commento è superfluo. Non si tratta di evocare un’immaginaria campagna bucolica mai esistita, ma di sfruttare la tecnologia che la natura ci mette a disposizione. Siamo abituati ad associare alla parola tecnologia solamente i prodotti più recenti sul mercato industriale, ma come scritto nella Treccani «con tecnologia si indica, più che l’insieme di singoli oggetti, lo sviluppo di strumenti con cui si è risolto un problema o è stato migliorato un aspetto della nostra vita quotidiana». La scoperta recente da parte della neurobiologia vegetale delle piante come organismi sensibili e intelligenti è ad esempio una nuova risorsa tecnologica per l’umanità. Veronelli già decenni fa si dannava e faceva appelli perché nelle scuole elementari si insegnasse a riconoscere le erbe e le piante che ci circondano. Quale migliore occasione di crescita e sperimentazione, che non abbiamo affatto colto?

L’inadeguatezza nasce anche dal senso di separazione che viviamo in ogni attività che facciamo. A cominciare proprio dal respiro. Tre anni fa ho iniziato a soffrire di acufene, un fischio continuo nelle orecchie che ancora mi accompagna e che oramai ho accolto come amico. I primi mesi sono stati tremendi, non riuscivo a dormire né a tenere sotto controllo l’ansia. Le medicine, come spesso accade, non hanno avuto alcun effetto. L’otorino specializzato nella TRT (Tinnitus Retraining Therapy) mi spiegò che il sistema limbico aveva catalogato quel fischio come un pericolo che metteva in allerta tutto il resto del corpo. Il fatto di esserne razionalmente consapevole non serviva a nulla: pensiamo di poter controllare le nostre azioni attraverso il cervello, come fosse il capo (nomen omen) del nostro corpo ma non è affatto così. Oltre alla terapia psicologica, ho iniziato a lavorare sul rilassamento dei muscoli e sul ritmo del respiro. Ma quello che rende più efficace la TRT è l’ascolto, durante la notte, dei suoni della natura. L’otorino mi ha raccontato che ognuno sceglie i suoi: chi lo scorrere di un fiume, chi il canto degli uccelli, io ascolto il suono della pioggia e dei temporali registrati in una foresta. La grande maggioranza di pazienti colpiti dagli acufeni vive in città e aree metropolitane. La separazione più grande avvenuta negli ultimi due secoli è proprio quella tra città e campagna.

Palermo

Il filosofo Emanuele Coccia in un articolo uscito durante la pandemia ha scritto che «la città è, per definizione, uno strano teatro che ci ha permesso di coltivare l’illusione che per vivere assieme non abbiamo bisogno di nessun’altra forma di vita: basta riunire donne e uomini attraverso pietre e metallo per poter divenire eterni. La città è soprattutto una forma di monocultura (umana) che respinge fuori di sé tutto quello che non le somiglia, in quella che chiamiamo ancora oggi foresta. Il nome foresta (dal latino foris, cioè fuori) che ci ostiniamo a pensare come la casa naturale degli esseri naturali, è solo l’espressione di questa ‘forclusione’: è il luogo in cui si raccolgono gli esclusi, gli esiliati dalla città. Foresta, andrebbe tradotta, letteralmente con ‘campo profughi’. Quindi ogni volta che pensiamo alla foresta come luogo naturale per gli alberi, gli animali, i batteri, i virus, diciamo che i non-umani devono vivere in esilio»3.


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3 Emanuele Coccia, “Rovesciare il monachesimo globale”, 28 aprile 2020 http://www.che-fare.com/coccia-monachesimo-globale/