Calice Luce

Respirare insieme

È una separazione che abbiamo applicato a tutti gli ambiti della vita. Ad esempio le categorie produttive create negli anni per accedere a piccole nicchie lavorative e sentirsi in qualche modo più protetti e al sicuro, come il “mondo” del vino, della ristorazione, il mondo della moda, dell’editoria ecc. Di fronte alla pandemia e alle incapacità governative tutte queste divisioni si sono sciolte come neve al sole. Ciò che è essenziale per la mia attività, come un’estate calda e arida di piogge per poter lavorare sempre all’aperto, è dannoso per l’agricoltura e per la terra già provata dalla siccità. E quindi per la nostra stessa vita. La riduzione di posti disponibili nei trasporti pubblici porterà a un utilizzo maggiore delle auto private. Misure economiche vantaggiose per un Paese sono sfavorevoli per un altro, e così via. È l’evidenza semplice, quasi infantile che tutto è connesso. Un’evidenza troppo grande, troppo potente, tanto che dai piccoli e falsi mondi che ci eravamo creati come lavoratori siamo passati a mondi ancora più minuscoli che finiscono per coincidere con le nostre case e con noi stessi, o al massimo con il nostro nucleo familiare.

Nuvolemare

Nessuno poteva immaginare un mondo in lockdown per mesi, eppure è successo. Ma si grida all’utopia e all’ingenuità se si parla di politiche di redistribuzione della ricchezza su scala globale, cioè misure necessarie, non settoriali, che avrebbero permesso di attendere il riavvio forzato e carnevalesco di migliaia di attività per sopravvivere e alleviare la spaventosa morsa della povertà. Nella corsa affannosa alla riapertura del locale ho sentito il peso di tutte le contraddizioni che stiamo vivendo. Non avevo e non ho ancora alcuna voglia di tornare a una normalità immaginaria, dietro la quale si cela una visione discriminatoria e immobile del mondo. Eppure, seguendo alcuni podcast, interviste, articoli sul vino, mi sono reso conto di quanto, nonostante il Covid, tutto fosse così statico, uguale a sé stesso. Un mondo chiuso e costruito, incapace di ibridarsi con altri linguaggi, uscire dalla sua comfort zone. Un continuo parlarsi addosso, tra solfiti e tannini, un’autoreferenzialità scalfita per fortuna da qualche piccolo e importante esempio, comunque insufficiente. Mentre sono al telefono con un amico vignaiolo che mi racconta tutte le sue preoccupazioni per la perdita consistente di fatturato, leggo un articolo entusiasta sull’aumento delle vendite di vino online e nella GDO. E capisco che no, non andrà tutto bene.

La prima volta che ho letto del virus ero a Londra, fine gennaio, stavo per entrare alla Tate Britain. Poco dopo mi trovavo di fronte all’Ophelia di Millais, a piangere come uno scemo. Non per chissà quale ammirazione puntuale dell’arte pittorica, di cui sono un completo ignorante, solo un’emozione sincera di fronte a un quadro meraviglioso. Ero ritornato da solo per un breve viaggio nella capitale inglese dove ho vissuto per qualche mese nel 2008. Volevo rivivere le emozioni provate dieci anni prima: prendere un bus di notte con Untrue di Burial in cuffia, rivedere i luoghi di un periodo di vita piena e preziosa. Una volta arrivato in città il desiderio di fare quello che avevo sognato per mesi era svanito. Ero un’altra persona e mi ritrovavo in un museo, di fronte alla mia fragilità: la nostalgia è una malattia che si cura da sola, capendo quanto siamo radicalmente diversi rispetto al passato. Anche quello più prossimo. Il nostro cervello, macchina potente quanto difficile da maneggiare, pesca continuamente da archivi, emozioni, ricordi passati che non ci fanno comprendere quanto ogni giorno siamo diversi e mutevoli. Ripropone la stessa immagine di noi la mattina allo specchio, nonostante la pelle e il corpo non siano affatto gli stessi del giorno prima. Siamo popolati da miliardi di acari, miceti, batteri, virus: ognuno di noi è un mondo, un pianeta ambulante dove si vive e muore ininterrottamente. Il cambiamento continuo è la realtà della nostra stessa esistenza. Confini, categorie, sicurezze sono concetti inventati da noi per aggrapparci a qualcosa, dare un senso a una complessità irriducibile e metamorfica. È normale che sia così, basta esserne consapevoli.

Quando ad esempio diciamo di “tornare alla normalità” bisogna essere sinceri con sé stessi, sapendo che non ci sarà alcun ritorno, e non c’è mai stata nessuna normalità. È una cosa che dovrebbe farci sentire più liberi, non spaventare. O quando pensiamo atterriti che non ci saranno risorse economiche per tutti, dovremmo ricordarci che soldi, debiti, proprietà privata, finanza sono invenzioni umane, di cui un giorno ci potremo disfare come società e come specie. La recessione che ci viene prospettata non è un destino ineluttabile, è una precisa scelta politica di chi vuole mantenere determinati privilegi.
Abbiamo bisogno di arti, saperi, vini e cibi buoni per nutrirci, di cure, di relazioni (non solo umane), di aria buona da respirare, non di bilanci da far quadrare, non di competere l’uno contro l’altro per vivere. Le responsabilità della situazione che stiamo vivendo sono state tutte scaricate sui singoli e sui nostri comportamenti individuali (è quello che accade da decenni per tutti gli errori delle classi dirigenti), celebrando la mancanza di risorse e preparandoci a una vita di sacrifici per poter “tornare alla normalità”. Ma non c’è ancora scarsità in questo mondo, esiste piuttosto la deliberata scelta di una disuguaglianza criminale. Impauriti dalla morte e da un essere microscopico che ha sconvolto le esistenze di tutti (questo dovrebbe ridimensionare il nostro narcisismo come specie umana), rischiamo di aderire a una vita che diventa mera sopravvivenza e obbedienza. La stiamo vivendo ora, giustificata (solo in parte) dall’emergenza sanitaria ma rimarrà anche quando il virus se ne sarà andato del tutto. È un futuro che non voglio neanche pensare, che non voglio abitare.

Collage tartuferi 1

Ieri una signora, dopo averle versato un bicchiere di Verdicchio, mi ha detto sorridendo: «Tu non vendi calici di vino, ma calici di serenità». Forse appare una frase banale ma, per un attimo, mi sono dimenticato di servire il vino vestito come fossi in una sala operatoria. Più che le parole sono state le espressioni del viso e il calore della voce a comunicarmi un senso di felicità conquistata, in quel piccolo gesto di un calice versato. Finalmente fuori casa. Dietro la mascherina ti aggrappi agli occhi che sorridono, alle parole, all’affetto delle persone. Ora capisco come fa un medico, costretto a portarla per tutta la sua vita lavorativa, a sentirne meno il peso: perché di fronte ha un corpo da curare.
Il vino, come la poesia, ha la capacità di riattivare le energie affettive4. In questi tre mesi ho compreso finalmente le parole di Sandro Sangiorgi sulla connessione così intima tra vino e poesia. La capacità di entrambi di cogliere lo spirito dei tempi e anticipare gli eventi non per una potenza profetica ma perché aderenti alla metamorfosi continua della vita. Quando mangiamo e beviamo, cerchiamo e incorporiamo la luce, l’energia del sole che le piante, insieme all’aria pulita per respirare, ci rendono disponibile; allo stesso modo, attraverso il vino e la poesia (e in forme diverse la filosofia, la musica, il cinema ecc.) cerchiamo di restituire questa energia tra di noi, nel corpo sociale. È una luce che non può solo consolare ma deve illuminare le contraddizioni, le sofferenze, le depressioni perché non siano più fatti individuali ma comuni.

In uno dei più bei film di Lars Von Trier, un pianeta chiamato Melancholia sta per entrare in rotta di collisione con la Terra. Le protagoniste sono due sorelle, Justine e Claire. Justine manda all’aria la sua festa di matrimonio, divorata da un malessere interiore che si palesa in maniera sempre più intensa durante il film. Claire invece è la sorella attiva, ansiosa ma razionale, sposata con un uomo ricco, John, che certo dei suoi studi scientifici tranquillizza la moglie e il piccolo figlio Leo sul fatto che Melancholia passerà solamente accanto alla Terra, senza distruggerla. Non andrà così: John sarà il primo a suicidarsi di fronte all’evidenza della collisione, mentre assistiamo a un capovolgimento dei ruoli delle due sorelle. Claire appare sempre più impaurita e impotente, incapace di concepire l’inevitabile e all’inutile ricerca di appigli nel suo mondo pieno di sicurezze che oramai non c’è più. Justine, invece, riacquista le forze, affronta la situazione e in un atto d’amore protegge il nipote dalla sofferenza della fine. Insieme costruiscono una capanna con dei rami dove attenderanno, mano nella mano (in una scena visivamente maestosa) l’impatto di Melancholia con la Terra. Al contrario del film di Von Trier, credo che abbiamo ancora tempo per scongiurare l’apocalisse. Che probabilmente non sarà un singolo evento catastrofico ma una più o meno lenta discesa negli inferi della crisi climatica e della povertà. Ma quello che ci dice Melancholia è che dobbiamo iniziare ad ascoltare le persone più fragili e sensibili se vogliamo invertire la rotta, e magari posare l’orecchio anche sulle nostre fragilità. Ringrazio l’acufene per avermene dato la possibilità. Non possiamo fermarci agli esseri umani, dobbiamo dare cittadinanza a tutti gli esseri viventi che abbiamo esiliato nella foresta. Costruire una nuova idea di città, di spazio, di lavoro, di comunità. Abbracciare il continuo cambiamento e l’imprevedibilità della vita.


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4«Ciò che può riattivare il corpo sociale dell’intelligenza collettiva che crea e ricrea continuamente non è più la politica, ma la poesia. La poesia sembra essere questa cosa un po’ dolciastra, romantica, anche antipatica, ma è la capacità di riattivare le energie affettive che si sono essiccate al punto che panico e depressione sono diventate la forma di vita prevalente, soprattutto all’interno del lavoro cognitivo. È a partire dalla sofferenza psichica che noi possiamo ricostruire un tessuto di solidarietà. Trump non ha vinto per forza politica, ha vinto come dimostra Jonathan Franzen chiarissimamente, grazie all’epidemia di depressione, eroina, paura e demenza».
Franco Berardi ‘Bifo’ da Futurabilità, Chiasso Letteraria, http://youtu.be/rF1GyWHi028