Calice Luce

Respirare insieme

a cura di sandro sangiorgi
foto di matteo gallello
Una boccata d’aria. È appena passata l’una di notte del primo sabato di riapertura della vineria. Sono rimasti pochi tavoli e dopo sette ore di frenetico servizio tiro giù per la prima volta la mascherina. Ricomincio a respirare, è come rinascere. Non mi ero mai reso conto di quanto fosse orribile avere a che fare solo con il proprio respiro. Si soffoca, non tanto fisicamente quanto psicologicamente. Nell’atto della respirazione c’è l’essenza della vita stessa. Respirare è la prima cosa che facciamo quando usciamo dal grembo materno, è la continua e ininterrotta contaminazione con gli altri viventi. Non si respira mai da soli: il respiro stesso è la prova che siamo parte di un’unica, molteplice vita. Mettere una barriera tra noi e l’aria che respiriamo è come rimanere confinati, banditi dal mondo. Quell’aria che non riusciamo a vedere, eppure ci permette di sentire, odorare, gustare, vivere.
A chi viene in vineria e mi chiede la solita domanda, «ma che cos’è il vino naturale?», ora rispondo che è un vino che non teme il rapporto con l’aria. Un vino che non ha paura di nascere nella contaminazione con la vita di altri esseri viventi, di accettare fino in fondo lo stupore della metamorfosi dell’uva nel liquido odoroso. Un vino che abbraccia il cambiamento continuo, l’intima essenza della vita.

Calice Luce

Il respiro è il ritmo che diamo alle nostre esistenze. Il Covid, questo minuscolo virus che non riusciamo neanche a vedere e capire, ha svelato che il respiro collettivo era diventato sempre più frenetico e affannoso, spinti continuamente a produrre, consumare, essere performanti, in eterna competizione con gli altri e perfino con noi stessi. Un amico filosofo, Paolo Godani, nel suo prezioso libro “Sul piacere che manca”, scrive che «nell’andirivieni bipolare tra eccitazione e depressione che caratterizza le nostre esistenze, non c’è mai alcun posto per il piacere, cioè – per dirlo con le parole semplici e precise di Max Weber – per la fruizione dell’esistenza»1. La nostra epoca è caratterizzata dall’ossessione di un desiderio mai appagato. Corriamo freneticamente, stimolati da informazioni, notifiche, consigli per gli acquisti, novità effimere. Su Youtube c’è una funzione che permette di aumentare la velocità di riproduzione dei video: la uso spesso, quando il tempo stringe (stringe sempre, di continuo, fino a soffocare), per finire di ascoltare una conferenza o un seminario registrato. Puoi aumentare la velocità di 1,25, 1,5, ma se acceleri troppo a un certo punto non riesci più a capire le parole. È quello che sta accadendo alla nostra comunicazione, sempre più veloce ma sempre più incapace di comunicare. Non riusciamo a comprendere gli altri né i nostri veri bisogni, a provare piacere, prendere aria, tornare a respirare. Come Eric Garner e George Floyd, tutta l’umanità, grida da tempo: «I can’t breathe, I can’t breathe, I can’t breathe». Ma non vogliamo ascoltare. Neanche l’esperienza così evidente e metaforica di un virus che è venuto a prendersi ed estirpare il nostro stesso respiro è servita a nulla. Abbiamo già ricominciato a correre più forte di prima, incuranti della povertà e del disagio psichico2 sempre più dilagante, delle grida degli scienziati sui rischi oramai imminenti del riscaldamento globale. Mentre scrivo, a un giorno dalla riapertura dei confini regionali, code ingenti si stanno formando sulle autostrade in tutta Italia. Trump ha ridotto i limiti per le emissioni prodotte dalle automobili. E non solo negli Usa: dovunque si chiuderà un occhio sugli standard ambientali pur di far ripartire l’economia. In realtà non ci siamo mai fermati. Ascoltavo l’intervista a un organizzatore di tasting online per un famoso “fine wine” club londinese: aprono bottiglie importanti e confezionano in laboratorio calici in fialette con argon da 100 ml da spedire ai partecipanti in tutto il mondo. Mi sembra semplicemente follia.
 
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Paolo Godani, “Sul piacere che manca: etica del desiderio e spirito del capitalismo”, DeriveApprodi, Roma 2019.
Dal rapporto del Censis, 2019, prima della crisi Covid: «Nel corso dell’anno, il 74% degli italiani si è sentito molto stressato per questioni familiari, per il lavoro o senza un motivo preciso. Al 55% è capitato talvolta di parlare da solo (in auto, in casa). E secondo il 69%, l’Italia è ormai un Paese in stato d’ansia (il dato sale al 76% tra chi appartiene al ceto popolare). Del resto, nel giro di tre anni (2015-2018) il consumo di ansiolitici e sedativi (misurato in dosi giornaliere per 1000 abitanti) è aumentato del 23% e gli utilizzatori sono ormai 4,4 milioni (800.000 di più di tre anni fa). Disillusione, stress esistenziale e ansia originano un virus che si annida nelle pieghe della società: la sfiducia. Il 75% degli italiani non si fida più degli altri, il 49% ha subito nel corso dell’anno una prepotenza in un luogo pubblico (insulti, spintoni), il 44% si sente insicuro nelle vie che frequenta abitualmente, il 26% ha litigato con qualcuno per strada».