Un obroni in Ghana

L’obroni è l’uomo bianco. Pubblichiamo con grande piacere questo delizioso racconto di Fabrizio Ricci, corredato da alcune splendide foto da lui scattate in Ghana.

Esco dall’aereo. Pochi passi sulla scaletta, e vengo invaso dall’aria calda e umida della notte. E’ l’inizio di Gennaio, in Ghana dovrebbe essere la stagione secca, ma la presenza dell’Oceano si fa ovviamente sentire. Il mio bagaglio sul rullo non c’è, è rimasto ad Amsterdam, mi dicono arriverà il giorno dopo. Poco male, l’attrezzatura fotografica è con me, ben pesante sulle mie spalle. Sono venuto qui per fare foto, documentare e capire, in fondo non mi serve altro.
Accra, la capitale, è una città confusionaria, che sta vivendo i tipici cambiamenti e anomalie che si presentato quando il progresso fa la sua entrata prepotente in una cultura fondata su antichi usi e tradizioni. Il Ghana è un paese decisamente “in via di sviluppo”. Palazzi moderni si alternano a strutture fatiscenti, quartieri con villette per i pochi benestanti e occidentali sembrano solo piccole macchie tra distese a perdita d’occhio degli “slum”, le baraccopoli. Persone in giacca e cravatta si mescolano tra i bambini e donne che si svegliano alle cinque del mattino per vendere, tra le macchine perennemente bloccate nel traffico, bustine d’acqua potabile, banane, dolci, ricariche telefoniche per cellulari. Sono vere e proprie colonne umane, che serpeggiano tra le auto come se fossero parte integrante del traffico stesso. Si ha quasi l’impressione che siano loro il cuore pulsante della città.
{gallery}2010_Ghana{/gallery} 
160 km di strada che costeggia l’oceano del golfo di Guinea mi portano a Cape Coast. Le buie prigioni del suo castello-fortezza hanno mura umide e coperte di segni e graffiti. Al loro interno, per due o tre mesi, venivano rinchiusi gli schiavi prima di salpare per l’America, per il “viaggio senza ritorno”. Non è difficile sentire ancora sulla propria pelle la loro disperazione.
Affacciandomi dalle mura del castello provo un certo conforto nel vedere i bambini che giocano sulla spiaggia e i pescatori intenti nel sistemare le reti. Una scena che vedrò spesso visitando i vari villaggi disseminati lungo la costa: Elmina, Butre, Busua, Princess Town.
Mi sposto nell’estremo nord, nella savana, al Mole National Park. Un viaggio di 12 ore per strade di terra rossa, dissestate, intriganti, che cercano spazio tra la foresta che diventa sempre meno fitta man mano che la meta si avvicina. Gli immancabili venditori spuntano dal nulla ogni volta che la macchina rallenta per uno dei tanti check-point della polizia. Camion ribaltati sul lato della strada per l’eccessivo carico e le numerose buche, macchine e pulmini provenienti da ogni angolo del mondo e riparati con pochi mezzi e molta fantasia, villaggi, mercati, persone, odori, offrono spunti per riflessioni e foto e ti fanno dimenticare che sei in viaggio da ore. E la fatica scompare del tutto una volta arrivato al Mole National Park. Il tramonto di un arancione intenso, gli elefanti che cercano conforto nelle poche pozze d’acqua che la savana offre nella stagione secca, non lasciano molto spazio alle parole. Nel buio della notte, in lontananza, si intravedono due focolai e si sentono distintamente i canti che arrivano dai villaggi vicini. Un cielo stellato lascia me, e gli altri ospiti del motel, a naso all’insù per buona parte della serata. 
Le giornate iniziano sempre presto. C’è tanto da fare, da vedere, da conoscere. E oggi voglio fotografare i bambini. So già che poi mi correranno incontro per giocare con la macchina fotografica, per rivedersi nel display. L’obroni deve riuscire a cogliere quella lucentezza nei loro occhi che solo qui, in un remoto angolo dell’Africa, riesce a vedere.