30 Giu Contrade di Taurasi, rigore e veracità. Conversazione-degustazione con Alessandro Lonardo
L’incontro presso la sede di Porthos, sabato 26 gennaio in compagnia di Flavio Castaldo, genero di Alessandro Lonardo, Marco Durante, Claudio Caputo e Riccardo di Giuseppe.
Sandro Sangiorgi – Com’è nata l’azienda?
Alessandro Lonardo – Provengo da una famiglia di tradizione contadina, nella zona di Taurasi i miei avi erano considerati i più bravi a vinificare. Ricordo, quando avevo 16 anni, che un maestro elementare veniva a comprare il vino e diceva di riuscire a bere solo il nostro perché non lo faceva stare male. Questa stessa persona, non trovandone più, propose a mio padre di vendergli il vino che aveva tenuto per la famiglia, lo avrebbe pagato anche a un prezzo maggiore, così avremmo potuto acquistarlo da un’altra parte. Mio padre, un tipo molto originale, si inalberò e lo mandò via. Allora la maggior parte della produzione era destinata all’uso domestico, il resto si vendeva in grandi botti che venivano consegnate a «quelli del Nord».
Pur essendo figlio d’arte, ho iniziato a bere il vino piuttosto tardi, intorno ai vent’anni. Frequentando l’università e con la scoperta di Napoli, sono uscito dalla soggezione che mi aveva creato la chiusura paesana. Proprio in città ho iniziato a ingurgitare, mi sembra il termine adeguato perché si passava dai superalcolici ai vini mediocri, per pura goliardia.
Iniziavo anche a bere i vini di famiglia che però erano prodotti in modo rustico. Nella vigna, mio padre, non usava concimi o antiparassitari, solo in due o tre periodi dell’anno, dopo aver osservato le foglie, interveniva con il rame e lo zolfo. Mi affascinava il fatto che conoscesse le pratiche agricole, come io conoscevo un testo di letteratura.
Starseti irpini – foto di claudio caputo
– Quindi tuo padre è sempre stato un agricoltore?
Sì, a parte il periodo della guerra durante il quale, per otto anni circa, è stato impegnato a fare il carabiniere da qualche parte… Ha girato tutta l’Italia.
Flavio Castaldo – Un documento della fine del 1700, a Taurasi, riporta tutte le famiglie che avevano partecipato alla costruzione della chiesa del Rosario, tra cui figura anche la famiglia Lonardo. Tutti gli abitanti erano piccoli proprietari terrieri e oggi si ritrovano gli stessi cognomi e le stesse terre.
– Dunque esistono alcune documentazioni che certificano l’antichità della proprietà, delle persone che ci lavoravano e della capacità di saper fare il vino.
Mio padre lavorava 5 ettari di vigna mentre la proprietà complessiva si estendeva per 10-15 ettari. La casa nella quale ho vissuto con la mia famiglia aveva una struttura particolare: una stanza che fungeva da ingresso e sala da pranzo, una intermedia, chiusa, nella quale si faceva la vinificazione e infine un’altra adibita a stalla. La stanza centrale aveva quindi una temperatura stabile, e sotto c’era la cantina, con un foro al centro nel quale passava un tubo che portava il vino nelle botti della capacità di 15-20 quintali, per una produzione di circa sessanta quintali di vino. Mio nonno diceva sempre che la casa era costruita più sotto che sopra, infatti in cantina si trovano anche frammenti di vecchie costruzioni.
Una parte della proprietà era a coltura mista, basti pensare che le viti erano maritate con piante vive. Negli anni quaranta introdussero la coltivazione del ciliegio, ovviamente rendeva di più e molti abbandonarono la vite. Il vino era messo in botti di castagno, per necessità dato che non c’era altro legno. Avevano doghe altissime, e ogni anno si ripeteva l’operazione, quasi un rito, della pulizia dall’interno con il rasoio e l’acqua bollente. Il vino veniva prelevato a fine agosto con l’apertura dei tini, non erano previsti travasi, solo una sorta di sfecciatura iniziale. Si lasciava posare e si metteva nelle botti che si sigillavano poco prima di Natale, appena terminata la fermentazione. C’è da considerare che oggi si vendemmia a novembre, allora a metà ottobre, appena il grappolo diventava nero. Si tendeva ad avere vini da 12-12,5 gradi. Si faceva la spillatura a fine agosto, quando arrivavano i compratori, solitamente da Piemonte o Francia. Il vino di Taurasi era considerato da semitaglio, lo acquistavano per fare i loro Barolo…
– Certo, perché era un taglio nobile e l’alcolicità non elevata. Quando ci fu la riunificazione dell’Italia, i vini del Vulture e di Taurasi furono tra i più importanti del Paese, equiparabili a quelli delle Langhe.
Flavio Castaldo – Infatti l’Istituto agrario di Avellino è stato fondato immediatamente dopo l’Unità d’Italia.
Alessandro Lonardo – Dopo l’università, iniziai a insegnare ad Avellino ma tra me e quella realtà non c’era sintonia. Me ne andai prima in Sardegna, dove insegnai per sei anni, quindi mi sposai e poi nacque Antonella, la prima figlia. Avevo deciso di restare in Sardegna, prima nel nuorese, dopo a Cagliari e poi… Sai dove mi sarebbe piaciuto restare? a Iglesias. Mia moglie, però, quando la bambina aveva tre anni, mi disse che bisognava decidere dove farla crescere. Ci trasferimmo così a Pozzuoli per un paio d’anni. Dopo il bradisismo, nel 1972, la nostra casa venne danneggiata e per una decina di anni ci stabilimmo a Fuorigrotta, poi a Napoli centro. Insegnavo a Giugliano, dove non c’erano case, piuttosto fortini recintati e fortificati. Era impressionante, sembrava il Far West. Noi portavamo qualcosa di nuovo, accompagnavamo i ragazzi durante le manifestazioni. Erano i primi anni ottanta, tosti, ma eravamo forti dell’affetto di questi giovani, nonostante le persone ci guardassero in modo preoccupato. Anche mia moglie insegnava, io al liceo e lei alle medie.
– In quel periodo cos’era per te l’agricoltura?
La natura mi ha sempre molto affascinato, anche perché per tutto il periodo dell’adolescenza sono stato un solitario. Prendevo un libro e andavo al fiume, o in un bosco, passavo le giornate così. Non frequentavo molto la società, neanche gli amici. Questo carattere, appena arrivato in città, è svanito.
– I vigneti in quegli anni erano ancora condotti da tuo padre?
Sì, cominciai ad aiutarlo a metà anni ottanta. Ritornavo in campagna mentre vivevo a Napoli, e faceva piacere anche a mia moglie. Sul finire di quegli anni mio padre non riuscì a continuare e in quel momento scoprii che, dentro di me, qualcosa si era sedimentato, quindi esplose la passione per la campagna e il bisogno di mantenere viva quella tradizione. Cominciai a pensare di organizzare qualcosa, sembrava che tutte le cose si dovessero fare in gruppo: un bel cambiamento per uno che di solito si appartava! Nel 1992, poco prima che morisse mio padre, fondammo, con altre otto persone, una cooperativa della quale ero presidente. Durò quattro anni. Gli altri soci litigavano e avevano altre attività, nessuno era davvero interessato al vino. Si parlava del Taurasi che aveva ottenuto la garantita, quindi pensavano fosse un modo facile per fare soldi. Mia moglie mi assillava e diceva di lasciar perdere, mentre invece ero ostinato e pensavo che la gente si potesse rendere conto che l’obiettivo non fosse solo fare soldi ma la collaborazione per costruire qualcosa. Purtroppo mi sbagliavo, non erano per niente sensibili e decisi di porre fine a questa disavventura. Intanto continuavo a insegnare, ma nel weekend e nei giorni liberi mi dedicavo completamente alla cantina.
– Quando hai ristrutturato la vigna?
Ho rifatto una parte della vigna e ne ho piantata un’altra sui terreni abbandonati vicino al fiume. Una parte, quindi, è stata impiantata ex novo nel 1992, l’altra parte fu poi riorganizzata a partire dalla fine degli anni ‘90, sempre cordone speronato.
Aglianico allevato a cordone speronato nella vigna di Case d’Alto – immagine fornita dall’Azienda
– È l’impostazione che ritieni più vicina alle esigenze dell’aglianico?
Credo di sì.
– E il materiale che hai piantato proveniva sempre dal vigneto di papà?
Sì, dai nostri vigneti, ma allora le barbatelle provenivano ancora da Rauscedo. Una parte l’ho fatta innestare da loro: mandavo i tralci ma molte volte è capitato ritrovassi uve bianche o uva da tavola. Già quando gettavano le foglie si capiva che non era aglianico ma in principio aspettavo due anni per essere sicuro. Alla fine abbiamo dovuto ricomporre tutto e ora stiamo per mettere il primo impianto di grecomusc’.