Degustazione presso Vini Veri a cura di “Porthos racconta” guidata da Sandro Sangiorgi

di Sandro Sangiorgi

Abbiamo voluto illustrare i contenuti del pezzo scritto nel 2009, e diventato quest’anno il manifesto di Vini Veri, attraverso una degustazione di undici esemplari significativi. Il documento si è rivelato utile a sollecitare una riflessione sulla qualità complessiva del vino e sulle competenze di chi lo fa e lo mette in commercio. Il punto di partenza è stato il concetto di inscindibilità tra forma e sostanza, ma non esibito in una forma già pronta, chiara alla prima annusata, più conquistato attraverso una continua scoperta grazie all’aiuto del calice. Un progressivo ampliarsi del mosaico che si forma tessera per tessera, nel quale gli elementi che inizialmente avrebbero potuto essere ingombranti e scomposti diventano preziosi per completare una ricercata e imprevedibile complessità. Ci sono stati vini capaci di farlo più di altri, cionondimeno ogni campione ha lavorato per restituire i suoi primi stadi di trasformazione, un percorso al quale non rinuncerei mai. Come si fa a saltare il momento della rinascita del liquido odoroso?

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L’ultima annotazione è sull’annata 2018 che, fino a due anni fa, a molti osservatori suscitava dubbi. Da mesi, numerosi prodotti naturali stanno donando espressività originali e si stanno riprendendo dall’incedere claudicante dell’inizio. Certo non emanano la compiaciuta serenità di stagioni più equilibrate, allo stesso tempo però testimoniano che il vino buono è, ancora oggi e per fortuna, un’entità mobile, che nasce all’aperto e ha il potere di trasformare la propria vita.

1) Angol D’Amig di Lanzotti Marco
“Scaramusc” Emilia Lambrusco 2019
Rubino viola, cupo come l’odore che mette in difficoltà chi non è abituato a determinati sentori organici; appena sotto preme il frutto, a un certo punto esce in modo esuberante facendo intendere cosa aspettarsi in bocca. Lo sviluppo gustativo è infatti leggero, dalla freschezza dominante, ben sorretta dalla rapida effervescenza. Forse va via troppo presto per riuscire a coglierne il tratto emotivo, consueto nei vini di Lanzotti che, però, di solito hanno maggior spessore.

2) Aldo Viola
“Krimiso” 2018 IGP TS Bio Catarratto
L’aspetto visivo tradisce una macerazione sulle bucce lunga e intensa, è dorato caldo con riflessi ambra, limpido. Il profumo sale piano in virtù di una profondità che non esaurisce le sue risorse e ci accompagna ben oltre il tempo della degustazione; al viscerale lato marino risponde l’odore della sabbia, un’espressione che prelude a un sapore dal tannino deciso e dall’acidità dinamica. È lei a dare slancio all’insieme, ne soffre un pochino la componente morbida che sembra chiusa in una morsa, nonostante l’alcol faccia finalmente respirare l’epilogo gustativo e riporti in luce i sentori iniziali. Non fa sconti, la personalità penetra nella memoria, inoltre mostra una coordinazione, un’unità d’intenti carente in alcuni dei vini precedenti di Viola.

3) Francesco Mariani – Raìna
Spoleto DOC Trebbiano Spoletino 2019
Giallo dorato vivo con una velatura evidente ma non disturbante. Rispetto alle versioni di annate precedenti il profumo ha un’immediatezza chiara e pacifica, a sottolineare un’annata solare ed equilibrata: alla frutta gialla si uniscono una florealità e una speziatura che, a un certo punto, il tempo nel calice tende a confondere. È uno sconfinamento riconoscibile anche dalla pungenza piccante del liquido nell’ingresso in bocca, il flusso sulla lingua è gioioso e regolare, la corrispondenza odorosa arriva piena di vita a trascinare le sensazioni verso una chiusura in levare. Quest’ultima, dovuta alla tensione tannica fino a quel momento celata, è sintomo di un ritmo, quasi una promessa di poter crescere stando in bottiglia. Memore di espressioni più seriose e graduali, dotate di una stoffa tannica evidente e diffusa, ho scelto di servirlo dopo il vino di Viola e ho sbagliato, come hanno dimostrato i ritorni e i confronti successivi all’interno della batteria.

4) Eugenio Rosi
“Poiema” Vallagarina IGT Rosso 2016 (Marzemino)
Si presenta con il granato vivo e intenso proprio di una varietà celebre per la coesione delle sostanze coloranti, a patto di coltivarla e vinificarla per fare un grande vino come accadeva qualche secolo fa. La struttura del liquido ci autorizza ad aspettarci una concentrazione odorosa, il contrario con cui si presenta la gran parte dei Marzemino in circolazione: il profumo non rincorre sentori specifici, conta la potente coralità che ci avvolge e persiste a mano a mano che il vino si apre. L’equilibrio già intuito al naso tra l’aspetto voluttuoso e quello più materiale è il tema del sapore, una disomogenea risonanza che appassiona e accompagna. Nel finale il vino si ricompone e porta in dote il confortevole richiamo dell’effluvio iniziale. Eugenio Rosi aveva previsto di darci il 2018, poi quando ha portato le bottiglie mi ha insinuato il dubbio proponendomi il 2016, ora più completo e in una fase felice, così la scelta non è stata difficile; il Poiema dona benessere già immaginandolo, un segreto che neanche il produttore è riuscito finora ad afferrare.

 

5) Fabrizio Niccolaini – Massa Vecchia
Rosato IGT Toscana 2019 (Malvasia Nera in prevalenza)
Il colore non è quello di un Rosé, come dimostra nella batteria con gli altri rossi, sia per la matura intensità della tinta granata sia per come il liquido si muove nel calice e suggerisce quale sarà la sua stoffa. Il naso coglie la trasformazione che il vino sta attraversando, al punto da preoccupare il produttore e quasi convincerlo a darci un’altra tipologia. A noi è nota l’espressività del Rosato di Massa Vecchia, un coacervo di erbe, bosco, iodio, pietra e nocciolo di amarena, un insieme sospeso e disorganico che non trova pace, nonostante la calma felicità dell’annata. La sua classe superiore emerge col passare dei minuti (e delle ore), quando il profumo trova una connessione più salda col sapore: la si potrebbe definire una reciproca emulazione, tanto è sorprendente l’estendersi gustativo e aromatico che inonda la bocca e non la lascia mai. Dicevamo dei dubbi di Niccolaini sulla fase del vino, a lui apparsa meno brillante di qualche settimana prima: abbiamo insistito mostrandogli quanto il calice gratificasse le risorse da sviluppare, quasi che l’essere meno aperto ci abbia donato una nuova sintonia, avvincente e imprevedibile.

6) Azienda Agricola Antoniotti Odilio di Antoniotti Mattia
Bramaterra 2018 (Nebbiolo in prevalenza, Vespolina e Uva Rara)
L’aspetto visivo ci conduce in un ambito che conosciamo, quel tono granato che pare ancora indeciso se lasciare la componente più viva e passare il guado entrando nella dimensione crepuscolare. È la Vespolina a “fare resistenza” eludendo le trappole dell’età e presentando il suo frutto scuro e succoso; il suo contributo è apprezzabile al naso e in bocca al di là della quantità coinvolta nell’uvaggio. Passati i primi minuti di questo gioco delle parti, l’effluvio lascia emergere l’animo forte del Nebbiolo, del quale troviamo sia la parte eterea sia l’elemento radicale. Il tannino è ben coperto da una morbidezza diffusa, un afflato che evoca dolcezza nonostante il vino sia secco; in un attimo sale in cattedra l’acidità, vera protagonista dei vini originati dalle zone alluvionali e caratterizzate dal “ferretto”, suolo antichissimo e appena rossastro. È lei ad allungare il sapore, a fare spazio all’elemento salino e a estrarre, proprio nell’epilogo, lo slancio di un tannino tornato vigile. Per un po’ tiene in pugno la seconda batteria, la dimensione gustativa multiforme, la crescita odorosa staccano gli altri ancora impegnati a risvegliarsi; dopo un po’ viene recuperato senza perdere autorevolezza. È un rosso tra i più emozionanti e significativi d’Italia, meno male che siamo ancora in pochi a saperlo…

7) Azienda Agricola Teobaldo Rivella
Barbaresco Montestefano 2018 (Nebbiolo)
Arriva dopo un vino in splendente fase espressiva, inevitabile che il suo peculiare carattere ermetico appaia un muro impenetrabile; ma andiamo con ordine. Il colore è un granato vivo quasi trasparente, il liquido si muove lento sulle pareti del bicchiere a indicare un sapore denso di significato. L’odore celato dietro una finestra sbarrata non facilita la percezione dei confini, che appaiono solo quando lo si mette in bocca. Qui, nel rilascio del respiro appena prima della deglutizione, si coglie una parte del suo segreto, una sorta di fuoco sotto le braci che s’infiamma per chi se lo merita. Il tempo nel calice gli dà ragione, ma gran parte delle persone che conosco l’avrebbe già riportato indietro considerandolo un vino muto, sbagliato. In effetti la corrispondenza gusto olfattiva è influenzata da una sensazione di legno che non si integra presto, altro motivo per scoraggiare chi non ha pazienza. Eppure, quando sembra già tardi, le persone presenti alla degustazione – produttori, enofili per diletto e per lavoro – mi segnalano che questo Nebbiolo comincia a dialogare. Prima attraverso la finissima florealità del profumo, poi con i tannini dalla dinamica e dall’irruenza senza precedenti in un contesto asciutto e scarnificato: siamo scaraventati sotto la torre di Barbaresco, alla fine ce lo siamo guadagnato. La continuità del sapore è garantita dall’alcol e dall’acidità: in modi differenti saldano le parti di loro competenza e ci lasciano all’epilogo misterioso proprio delle premesse iniziali. Baldo Rivella prende l’energia del Montestefano e la distilla nel vino: in vent’anni il suo Barbaresco non mi ha mai fatto una carezza, eppure ne ho sempre sentito l’affetto.

 

8) Klinec Medana Brda
Rebula Prima Classe 2018
Una delle prime associazioni è stata con la definizione “kamikaze” che, originariamente, significava “vento divino”. Il colore oro caldo si è manifestato in un sol movimento col profumo, un insieme efficiente, una generosità all’ennesima potenza applicata da un vitigno celebre per la sua parsimonia. È evidente che l’atmosfera del Collio, che Monelli avrebbe definito «densa come l’impasto di un pane», costituisce un’opportunità per far salire il morale dei suoi figli migliori, trasformandoli in donatori di coraggio. Il profilo odoroso pungente a causa di una volatile decisamente allegra ha messo in crisi alcune persone e per un tempo limitato, a un certo punto è stato un privilegio seguire l’affermazione di un temperamento raggiante. Un altro 2018 che scava nelle recondite risorse e rifiuta l’idea di minorità, una proporzione dritta e polposa, un sapore intenso. Probabile che proprio all’altezza dell’ultimo quarto di lingua – in certi vini le fasi vanno oltre le tre canoniche di impatto, sviluppo e retrogusto – si sia colta una fuga anticipata, una sospensione del contatto, aspetto riscontrabile anche in altri suoi coetanei. Ci pensa l’eredità gustativa nel cavo orale quando si svuota a riprendere il “vento divino” che domina i ricordi. Il confronto col successivo è stato il più complicato da gestire, a cominciare da come posizionarli nella sequenza; a differenza del passaggio tra 2 e 3, credo di non aver sbagliato, nonostante il primo colpo della Rebula di Aleks e Simona può respingere temporaneamente qualsiasi tentativo di sovrapporsi. Il resto è più corretto scriverlo (e leggerlo) nelle note finali del prossimo.

 

9) Paolo Vodopivec
Vitovska SOLO MM18
Due nomi femminili, Rebula e Vitovska, due luoghi simbolo di una naturalità diffusa, difesa e discussa come di rado in altri luoghi. Due fisonomie ben scolpite che traggono dall’annata un’ulteriore quota di imprevedibilità. Più solare e avvolgente quella del Collio (Brda in sloveno), più nitida e sottile quella del Carso (Kras in sloveno). Sin dal colore il vino ottenuto dagli alberelli carsolini, tanto cari a Giovanna Morganti, esprime un oro luccicante. Al primo contatto col naso sembra riproporsi la situazione del Barbaresco, peraltro è il momento nel quale il suo interprete si è allontanato dalla sala per alcuni minuti. Appena Paolo torna, non può essere una coincidenza ed è probabile una suggestione, il liquido comincia ad aprirsi, col contegno e col pudore che da sempre lo caratterizza, ma rivelando una costruzione saldata da fili invisibili, come se ci si potesse passare attraverso. La bocca è un articolato ed eterogeneo sistema di trattini connessi tra di loro, come sinapsi che attivano comprensione e memoria. Per qualche istante si esce dalla dimensione vino e sembra di viaggiare in un flusso liberatorio. Sul pavimento della lingua, come accade nel ciclotrone utile agli esperimenti della fisica, restano particelle da rimettere insieme e riconsegnare al senso della stoffa. Una percezione che arriva piena quando la Rebula di Klinec smette di essere estate e, finalmente, lascia alla Vitovska di Vodopivec il compito di essere autunno. La reazione di noi che eravamo lì è stata di un recupero di verità che questo campione di ricercatezza ha fatto di tutto per nascondere.

 

10) Cristiana Galasso – Feudo d’Ugni
Montepulciano “Askoy” Riserva 2009
L’apertura delle bottiglie da mezzo litro è stata da sola un’esperienza mistica, per come si è palesato immediatamente l’intricato effluvio dovuto all’ossidazione. Impossibile resistere, ne ho versato subito un po’ nel primo calice a disposizione, per saggiare dal colore a che punto fossero l’unità e la struttura di questo vino magico. Una coralità matura ma non caduca, questa la risposta, una capacità evocativa che non dimentica nessuno dei suoi dettagli, a partire dalla sensuale comparsa di foglie e radici associate a una scura amarena sotto spirito. Non manca l’aspetto empireumatico con il tono del caffè e del cacao, vicinissimi per come si trasferiscono in bocca. La fibra di un vino ossidato è la seconda prova per dimostrare che è valsa la pena dialogare con l’aria (la prima è l’aura che circonda il profumo in continua trasformazione). Progressione e distensione del tessuto, una carnalità vellutata eppure mai doma. Neanche la consistente presenza di depositi ci ha impedito di arrivare al fondo del calice e delle bottiglie, tanto è viva l’armonia, con l’alcol a fare da sostanza guida, una madre che sa arrivare fino all’ultimo figlio, non importa quanti siano. Cristiana Galasso è una produttrice dalla sensibilità fuori dal comune, a tratti può apparire “sfacciata” pensando ai vini che propone, liquidi stellari per come le parti appaiono lontane e sempre al limite, ai confini dell’esistenza. È evidente, lei “vede” sia il possibile sviluppo sia la preparazione ad affrontare il tempo in un movimento circolare che non passa mai dallo stesso punto. Come in questo caso.

 

11) Ezio Cerruti
“Sol”, Moscato di Castiglione Tinella 2007 ottenuto da uve appassite
Conosco i vigneti di Cerruti, da prima che lui stesso si accorgesse di quale tesoro aveva a disposizione. Ho avuto la fortuna di assaggiarne l’uva fresca, di percepire attraverso una leggera surmaturazione l’accrescimento del patrimonio aromatico e la conservazione dell’equilibrio nel succo. Per non parlare del piacere di mangiarne la buccia, con quel suo tratto amaricante che rende il Moscato campione di una bellissima contraddizione. Ebbene, sin dalla sua nascita la versione passita di Ezio ha ribaltato le mie certezze, ha offerto l’altra faccia del Moscato, esattamente come il lato invisibile della Luna. Gli esemplari che partono con le medesime aspettative franano in una dolcezza stucchevole e, col passare del tempo, crollano su se stessi. Oppure faticano a conservare la proporzione necessaria a tenersi lo zucchero e dopo un po’ diventano dei simpatici liquidi frizzantini e imbarazzati come se improvvisamente fossero stati colti nudi. Accarezzare lo squilibrio per portare l’unità del vino a guardare oltre, colore profumo sapore e sensazioni finali che fissano un orizzonte invisibile agli altri. Il “Sol” ha destabilizzato il modo con il quale eravamo abituati a valutare i vini dolci, un po’ quello che è successo col Passito di Pantelleria di Salvatore Ferrandes. Alzare la nostra attenzione per non farci sfuggire ciò che è racchiuso in ogni piega, dietro ogni ritorno gustativo, una costellazione della quale si permettono di far parte un’amorevole tannicità e un’acidità che tiene più alla salinità che a se stessa, altro meraviglioso tradimento delle aspettative. E mentre col tempo il frutto si fa più disidratato, il confine tra naso e bocca diventa sempre più sfumato a beneficio del lascito, un’esibizione di luce e ombra che in un attimo scompare. Ezio Cerruti ci ha donato il 2007, mi ha detto di aver messo la scatola in auto prima di sapere che l’avevamo selezionato, a volte la provvidenza…