11 Dic Porthos ha raccontato al Palmizio… Ripensare il Trebbiano – versatile, suadente, duttile
La premessa nella presentazione dell’evento:
Ho conosciuto il Trebbiano in una fase molto delicata della sua storia, quando solo in rarissimi casi si poteva parlare di vino di qualità. La gran parte del liquido in circolazione era completamente anonima. Il Trebbiano d’Abruzzo di Valentini e Pepe, il bianco di Montevertine nel Chianti e il Torgiano Riserva Vigna Il Pino di Lungarotti erano tra i pochi esempi virtuosi, perché non avevano tradito le radici culturali e colturali della varietà bianca italiana più diffusa, né avevano rinunciato a un’espressività autentica, in totale controtendenza con l’espansione dei bianchi fruttati a prescindere. Potete quindi immaginare la nostra soddisfazione quando, alcuni anni fa, abbiamo cominciato a percepire lo sforzo di numerosi viticoltori per riportare il Trebbiano nella sua dimensione di bianco versatile, suadente e tattile, caratterizzato dall’emancipazione dei profumi fermentativi da associare all’impronta di ogni luogo. È stato ripensato alla luce di ciò che i maestri avevano lasciato, senza perdere la preziosa libertà d’interpretazione, ma perseguendo un senso storico, vera bussola di ogni denominazione d’origine. La degustazione sarà un confronto tra almeno dieci esemplari serviti alla cieca originati da diverse regioni dell’Italia centrale, Umbria, Toscana, Marche e Abruzzo, nelle quali abbiamo scoperto lo slancio con cui viene custodita l’identità del Trebbiano, varietà resistente e malleabile ma non così incline a dare i migliori frutti ovunque la si pianti.
Questa la considerazione finale che apre la descrizione dei piatti e dei vini:
Il Trebbiano si dimostra vino indipendente e sensuale, versatile e intensamente fisico, ma soprattutto capace di emanciparsi attraverso la fermentazione spontanea e in virtù di una territorialità piena, restituita integralmente. La nostra selezione ha esibito una partecipazione gustativa che alla gran parte dei vini è sconosciuta, così non è stato difficile trovare sempre un vino pronto a seguire le veraci specialità del Palmizio. Lo consideriamo un incrocio di croccanti schiettezze e singolari imperfezioni, da misurare con la capacità di ascolto e accoglienza che ogni enofilo può imparare a praticare.
Carpaccio di orata con mandarino e tartufo nero
Falerio (trebbiano 50%, passerina 30%, pecorino 20%) 2013 Aurora (Offida)
Trebbiano d’Abruzzo 2008 Valentini spumantizzato con metodo classico presso la Fattoria Le Gemme di Martinsicuro da Walter D’Ambrosio e Valerio Di Mattia “sorvegliati” dal prof Leonardo Seghetti
Il cibo è di una delicatezza mimetica e quasi impalpabile, tanto che l’aroma del tartufo e la freschezza del mandarino emergono nettamente; in teoria funzionerebbe un bianco così sottile da adagiarsi, quasi sovrapporsi, sul sapore del pesce, cercando di non subire l’acidità dell’agrume.
La cadenza regolare, timida, del Falerio non c’impedisce di coglierne la vitalità che accoglie il crudo, riuscita quindi la fusione tra le differenti leggerezze.
Caotico e pervasivo, lo spumante deve il successo sull’accostamento all’accenno di dolcezza nell’impatto del sapore che rallenta l’effetto della carbonica e salvaguarda la soavità dell’orata; l’olio di Valentini e il pane di saragolla tostato amplificano la corrispondenza tra naso e bocca e chiedono al vino di lasciarsi coinvolgere in una duplice evocazione tra terra e mare.
Baccalà su puntarelle di cicoria condite con acciughe
Trebbien (trebbiano) Valter Mattoni (Castorano)
Serment (80% trebbiano toscano in tre biotipi diversi tra cui il Procanico o trebbiano rosa, 20% malvasia toscana e vermentino) Poggio Concezione (Pitigliano)
La teoria sul “matrimonio” considera il piatto quasi inabbinabile, vista la verde e amara croccantezza delle puntarelle, per non parlare dei rischi di effetto metallico quando si lavorano acciughe e, soprattutto, baccalà; un dato utile è che vegetale e salato sono dalla stessa parte e richiedono al vino una certa rotondità.
Il Trebbien è abbondante, si concede tutto insieme, le contemporanee sensazioni di aridità e rigoglio evocano sole e luce; tanta generosa ingenuità non è ripagata da un’adeguata lunghezza, tuttavia il vino è capace di accudire l’amaricante del vegetale e di misurarsi sulla salinità del pesce senza tradirne la trama.
Intimorisce per la nitida esuberanza vulcanica, alla quale aggiunge una percezione carnosa di fiori e liquida di acqua dolce; la corposità è suadente ravvivata da un leggero residuo di anidride carbonica. Rispetto al vino precedente mostra di avere maggiore esperienza, per questo comincia piano e conquista la ricetta senza scomporla, vivendosi il proprio slancio senza temere di sporcarsi le mani: il risultato è un accostamento avvincente, dove nulla si perde e tutto torna.
Rospetto all’alloro e lenticchie di Monteleone
Vigna Vecchia (trebbiano spoletino) Collecapretta (Terzo La Pieve – Spoleto)
Tristo (trebbiano) Marco Merli (Casa del Diavolo – Perugia)
La ricetta avrebbe fatto la felicità di chi teorizza che un vino può considerarsi perfetto solo quando è in grado di affrontare cibi complessi e completi; in un certo senso la combinazione tra un pesce povero e un legume cucinato al dente – quindi senza le insopportabili “pappette (passatine) cremose” – dove a tenere insieme le cose è la soluzione di grasso del rospetto e olio della padella, mette alla prova intensità e pazienza, maturità e materialità.
Il Vigna Vecchia ha profumi miti e compiuti, eppure regala un clima d’impazienza; la polpa fragrante e grintosa devia il corso del vino sul cibo, e alla stoffa del sapore non basta condividere un pizzico di polvere, perché è proprio la scontrosa acidità a ostacolare una sintonia partecipe e durevole.
Il Tristo non è solo uno dei vini più buoni della serata, ma è anche protagonista di quello che Veronelli avrebbe definito un «matrimonio d’amore». Graduale e pulito al naso, lascia trapelare l’impatto della macerazione in una tangibile emancipazione degli odori fermentativi; resinoso, accogliente ma anche deciso, si distingue per una nobile rusticità. L’unione col cibo si basa sulla tensione che unisce lenticchie e struttura del vino, allo stesso tempo a rendere imprevedibile la bellezza di ogni boccone ci pensa il confronto serrato tra i tannini delle bucce e la sensazione grassa del pesce.
Spaghetto con totanetti, aglio e prezzemolo
Trebbiano d’Abruzzo 2010 versione “dalla riserva” Emidio Pepe (Torano Nuovo)
La cottura della pasta, lo spaghetto è Verrigni con grano Valentini, ha un ruolo fondamentale nell’accostamento, perché è bene mantenere cruda l’anima in modo da gratificare la scivolosa densità del sugo di totani. Ci pensa il tempo passato nel piatto e l’avvolgere della forchetta a completare la fusione e a rendere irresistibile l’insieme. Quale vino? Un vino altrettanto irresistibile!
Irriverente e rabbioso sin dall’esame visivo, indisponente al naso perché chiaramente occupato a curarsi le ferite della fermentazione malolattica in atto, il Trebbiano di Pepe 2010 fa della spontaneità il suo omaggio erotico, perché col passare dei secondi si coglie la bellezza di un bianco marino ed emotivo, carnale ed energico, irriducibile nel seguire ogni assaggio di cibo e invitare a un continuum degno di una “grande abbuffata”. Carbonica residua, sentori organici, irregolarità gustativa diventano dettagli marginali di fronte all’abbraccio materno che rimane alla fine di ogni assaggio. Mentre il vino di Valentini è un omaggio alla gestione del consenso, e in questo possiamo leggere il mantenimento di una certa quantità di rassicurante solforosa, il coevo Trebbiano di Pepe è un salto nel vuoto, dove il passaggio di mano tra Emidio e Sofia è sottolineato da una sempre maggiore libertà produttiva ed espressiva. Certo, qualche errore c’è stato, c’è e ci sarà, ciononostante nel Trebbiano – vero laboratorio del testamento tra padre e figlia – scorre una vita piena e indomabile.
Fritturine di ostriche con salsa di basilico, razza e sogliolette
Trebbiano 2011 Casale (Certaldo)
Trebbiano d’Abruzzo 2010 Valentini (Loreto Aprutino)
Composizione di difficile lettura: non basta mettere un bianco neutro e secco, dotato di una sensazione acida costante, perché a parte l’originalità dell’ostrica ci sono le cartilagini di sogliola e razza a richiedere una partecipazione tattile che solo un vino naturale può assicurare.
Il 2011 del Casale, verace e aereo, pungente di volatile e minerale di sale, sa dirigere l’accostamento con finezza e pervicacia, legandosi alle ostriche fritte e alla salsa di basilico che le accompagna, rispettando la polpa del frutto e la fragranza della cottura e restituendo un memorabile matrimonio “one shot”; fatica sul resto del piatto che richiede ben altra pazienza.
Raffinato e fiorito. Non è facile sentire un Valentini così accordato nei profumi, al punto che diversi partecipanti hanno creduto fosse di Pepe, e viceversa! Eppure la matrice verde dei profumi è inconfondibile, come la stratificazione organica infarcita di ricordi marini e di carne bollita; il sapore è secco, fila via spedito e coinvolto, cristallino nella qualità della persistenza. Forse per questo non tocca le corde più intime, vive nell’ambizione della perfezione e, perdendo un pizzico d’imprevedibilità, diventa abile. Forse proprio in virtù di tale correttezza il risultato dell’accostamento è entusiasmante: il Trebbiano aprutino non forza la mano sulla polpa dei pesci e si gode l’incontro terra-mare con le cartilagini; a lasciarci esterrefatti è la pulizia del rapporto tra la frittura e la freschezza del vino.
Semifreddo alle mandorle con cachi
Muffasanta Fiero (trebbiano da acini botritizzati) 2011 Cantina Margò (Località Casenuove – Perugia)
Il Muffasanta è una sfida: ben poca dolcezza poi la volatile che lo elettrizza. Appuntito, rustico, lascia scossi di un bel ricordo; divide per varie ragioni, a cominciare dalla diversità tra le bottiglie e la presenza di un sensibile deposito che influenza il rendimento gustativo da un bicchiere all’altro; eppure sorprende la felicità dell’incontro con un dessert realizzato col cuore e intonato alla fierezza della stagione autunnale.
foto di Albertino Foschi e di Navia e Alberto de L’Oasi del Borgo