11 Lug Dialogo tra due enofili impenitenti
C – Sulla base di quella che è la mia esperienza con gli enologi, l’impressione è sempre stata la stessa: questi professionisti hanno tutti la medesima idea del vino, e cioè che sia soprattutto una “cosa” da governare, da gestire, e non un essere vivente. Ciò è sicuramente da attribuirsi alla loro formazione culturale ed è il loro limite più grande. E credo si tratti probabilmente di una mancanza di consapevolezza.
S – Sono d’accordo sul limite culturale, meno sulla consapevolezza. Mi spiego meglio. La tua considerazione ha un senso se ti riferisci a un enologo giovane. Quando però un professionista comincia a essere navigato, perché ha lavorato, ha viaggiato, etc., non può farmi credere di non aver capito che un vino è più buono se nato da una situazione sana, dove non hai bisogno d’intervenire.
C – La contrapposizione ideale tra quello che a me piace chiamare “vino degli enologi” e quello che Veronelli amava definire “vino dei vignaioli” è da considerarsi estremistica o ha ancora un senso?
S – È senza dubbio una contrapposizione corretta e ha ancora un senso. Va precisato anche che non ha a che fare con le dimensioni dell’azienda. Ci sono aziende che fanno cinquantamila, anche trentamila bottiglie, ma che hanno un’impostazione già preordinata. O perché è il produttore che li vuole così o perché si fa aiutare da qualcuno che li vuole così. È in pratica un artigiano che opera con una logica industriale.
C – Ottimisticamente mi piace pensare che questa forbice concettuale, questo divario culturale tra vini (cosiddetti) convenzionali e naturali, possa nel tempo ridimensionarsi. Mi piace credere che, al di là delle polemiche e delle posizioni, sia in atto un percorso culturale proiettato verso questo obiettivo. Che ne pensi?
S – Il punto è proprio questo. La capacità dei produttori di farsi il vino da sé e interpellare i consulenti per crescere nella consapevolezza, nella conoscenza. Questo è ciò che dovrebbe aggregare e stimolare un consulente, ossia continuare a lavorare come uno strumento per ottenere un vino il più possibile libero. Insomma, qual è il sogno di un maestro?
C – Se è un maestro coscienzioso, quello di essere superato dall’allievo.
S – Mentre la tendenza a voler essere a tutti i costi “indispensabili” la dice lunga circa l’approccio degli enologi nei confronti dei produttori.
C – Da sempre sento lamentare gli accademici dell’eccesso di frammentazione del vigneto Italia (la superficie media di un’azienda agricola italiana è inferiore all’ettaro), dunque poco efficiente e non in linea con le pressanti esigenze di competitività del mercato globale. Citando Nicolas Joly: «Ogni luogo deve poter manifestare la propria differenza. Rinforzare la vita significa accentuare le diversità e allontanarsi dall’uniformità». Se vino naturale fa rima con artigianale, identificato dunque con piccole produzioni, la sua progressiva diffusione potrebbe quindi finalmente rappresentare, e in barba alla minacciosa globalizzazione, riscatto e valorizzazione. Penso che potrebbe insomma costituire una chance storica per respingere una modalità industriale che si è purtroppo diffusa anche nel nostro paese.
S – Senza alcun dubbio. Ciò che per una certa letteratura costituisce un limite, sappiamo benissimo che, in realtà, non lo è affatto. Anzi. Bisogna avere la forza di far comprendere che è il nostro segreto.
C – Sempre Nicolas Joly, ne “Il vino tra cielo e terra” così scrive: «Un vino in biodinamica non è sempre buono ma è sempre vero». È in pratica il concetto tanto caro a Veronelli «meglio il peggior vino del contadino che il miglior vino industriale»?
S – Sì. Ma io non mi accontento. È un punto di partenza, non certo il traguardo. «Oggi è un dono», scriveva Bil Keane, e oggi serve per imparare a essere più bravi a fare le cose, e quindi evitare di dover giustificare «il peggior vino del contadino». Oggi non sono disposto ad accettare questa dicotomia. Poteva essere una provocazione interessante al tempo di Veronelli ma oggi, con quello che abbiamo conosciuto e con ciò che i vignaioli possono realizzare, non è credibile. L’industria è cambiata, si è fatta anche più sveglia, e gli agricoltori hanno avuto occasioni notevoli per diventare più consapevoli, più bravi nel fare il loro mestiere. È bene sottolineare che non esiste un aspetto stilistico. Fare vino naturale non è una questione stilistica. È una necessità. È il futuro. È tutto. Fare il vino naturale è fare il vino.
C – Anche questa suona come una provocazione.
S – Può darsi. Ma non ci sono alternative. Non c’è spazio per altre scelte. Il vino naturale è il futuro.
C – Parliamo sempre di un vino che sia in grado di garantire comunque una certa stabilità, giusto?