Elogio dell’imperfezione

Un’altra voce fuori dal coro, che con affetto e lucidità spinge in alto le ragioni del cuore, contro quelle del marketing patinato.

Nella varietà che fa bello il mondo, qualcosa sembra comunque degna di critica.
Un paio di episodi possono fungere da esempio per quanto riguarda il nostro microcosmo che orbita intorno al vino. Partiamo da una degustazione dedicata ai vini australiani. Prodotti scelti fra quelli che dovrebbero avere maggiore personalità e meglio rappresentare la produzione che, soprattutto nel Sud d’Italia ma non solo, sta diventando il modello a cui uniformarsi. Vini interessanti, senza dubbio. Buoni, anche. Assolutamente completi, in alcuni casi con poche sbavature, nel caso dell’ormai mitico Torbreck Runrig 1998 assolutamente “perfetti”. Questa perfezione è proprio quello che non ci piace trovare dentro le bottiglie, questa ricerca della sfericità del gusto e di una levigatezza così assoluta che le papille non riescono a trovare un solo appiglio per potersi ricordare di quel vino con un aggettivo diverso dall’odioso ·perfetto·. Un’immancabile base di Shiraz, una giusta dose di legno, un’eventuale e lecita correzione dell’acidità nel caso che il cocktail non avesse le proporzioni perfette. Ci siamo, Coonawarra come Sicilia, il mondo del vino rimpicciolisce di colpo. Il marketing dà loro ragione, la ragione dà loro torto.
Le logiche di mercato portano verso l’omogeneizzazione dei prodotti. Una tendenza a cui molti produttori stanno continuamente cedendo, con rammarico di chi ama il vino come espressione del territorio e di chi ricerca la varietà che, come dicevamo, fa bello il mondo.
In quella stessa occasione una persona, in teoria responsabile non solo delle proprie parole ma anche di una sezione locale di una nota associazione eno-gastronomica, vieta al relatore della serata di informare i partecipanti sui prezzi dei prodotti in degustazione. La ragione di questo veto nel fatto che il prezzo potrebbe influenzare la valutazione del prodotto. Forse questa persona pensa che una bottiglia da 600.000 lire debba valutarsi con gli stessi parametri di una da 6.000. Forse pensa solo di essere alla ricerca dell’assoluta perfezione, in barba al rapporto fra qualità e prezzo. Forse semplicemente non cerca in una bottiglia l’espressione di un vitigno e di un territorio, ma uno strumento per raggiungere un punteggio di 100 dato da Parker o qualche altro guru dell’enologia consumistica internazionale. Si può ridere o piangere a seconda dell’umore, ma certo non è un esempio educativo per chi dà più valore al vino che ai tre bicchieri che lo contengono. In quanto a bicchieri, ci sono aziende che ambiscono a fare collezione di questi servizi da tre e che in degustazione accolgono gli appassionati presso le loro cantine in modo signorile ed amabile. Offrono i loro costosi prodotti con grazia ed esibendo con nonchalance il loro palmares di premi nazionali ed internazionali. Peccato che la considerazione verso chi degusta non vieti loro di offrire prodotti non ancora pronti. Così in aprile si è avuta l’occasione di degustare rossi a cui mancavano anche 6 o 7 mesi di affinamento in bottiglia, rossi grevi appena usciti dalla loro ormai ineluttabile permanenza in barrique. Naturalmente tutti i malcapitati fortunati si affrettavano a definirli grandissimi anche se tannini, legno ed acidità rendevano la degustazione impossibile per quei pochi in grado di riconoscere, in questo stadio, un vinaccio da un capolavoro.