01 Ago FALANGHINA FELIX 2005
Falanghina Felix è stata l’occasione per vivere un fine settimana completamente immersi nell’avvolgente atmosfera del borgo di Sant’Agata de Goti.
La cittadina, che vanta antiche origini sannitico-romane, presenta un centro storico piuttosto singolare e ben conservato, risalente, per lo più, ad epoca normanna, irto su uno sperone di roccia tufacea, separato dalla valle circostante da due profondi impluvi che confluiscono nel fiume Isclero, a sua volta affluente del Volturno. |
Sant’Agata de’ Goti, che deve il suo nome ad un insediamento di Visigoti, sconfitti dall’imperatore bizantino Giustiniano I nella battaglia del Vesuvio del 53 d.C., rappresenta, quindi, il cuore storico-artistico di un’area, il Sannio, che costituisce uno dei maggiori polmoni viticoli dell’Italia meridionale; un territorio che negli ultimi anni sta facendo grossi sforzi per affrancarsi da una vocazione puramente quantitativa, per puntare su un rilancio della qualità e che sta ottenendo, in alcune aree più vocate, e segnatamente nella zona del Taburno, già alcune gratificazioni incoraggianti. La manifestazione, alla sua 4a edizione, si proponeva di rappresentare, il più compiutamente possibile, il panorama regionale dei vini ottenuti dal vitigno a bacca bianca su cui si è costruita, a partire dagli anni ’90, la rinascita della vitivinicoltura campana. Va dato atto all’organizzazione di avere predisposto un programma piuttosto articolato, con eventi diversi per contenuti e per localizzazione, riuscendo in tal modo a coinvolgere piuttosto a fondo sia la città ospitante, di cui, in pratica, era protagonista l’intero centro storico, sia i diversi fruitori, nei loro variegati approcci. Da questo punto di vista vanno segnalati, ad esempio, gli incontri con i produttori, chiamati a raccontare la propria esperienza, e le degustazioni in abbinamento con la Mozzarella di Bufala Campana D.O.P. e con la Pizza Napoletana S.T.G., che hanno visto la partecipazione dei rispettivi consorzi di tutela: gli accostamenti, a volte, sono risultati un po’ ardui, ma le intenzioni erano sicuramente lodevoli. |
Menzione a parte merita il convegno di apertura, che ha fornito un quadro agronomico e tecnologico piuttosto chiaro sulle attitudini de vitigno, grazie al contributo, tra gli altri, del prof. Luigi Moio, ormai un punto di riferimento assoluto dell’industria enologica campana.
Se un appunto si può fare all’organizzazione, è che c’è stata un’attenzione inadeguata agli utenti professionali, con la sala degustazioni che presentava parecchie inadeguatezze e con la mancata predisposizione di eventi di profilo adatto a tale tipo di fruitori, in modo da elevare il tono generale della manifestazione.
Venendo alle degustazioni, quindi al panorama enologico sensu strictu, va detto che il giudizio non è dei più entusiasti.
Innanzitutto, il banco di assaggio, che si proponeva di rappresentare lo scenario regionale completo dei vini da falanghina, era, in realtà, monopolizzato dai prodotti del beneventano, con una proposta molto limitata dalle province di Caserta e Napoli e con Avellino e Salerno praticamente assenti.
E se non è sembrato un gran sacrificio la rinuncia ai prodotti del casertano, dato che quelli assaggiati, provenienti per lo più dalla zona di Galluccio – Roccamonfina, hanno denotato una certa semplicità e non eccezionale finezza olfattiva, un certo rimpianto lo abbiamo provato per la scarsa rappresentanza dei produttori dei Campi Flegrei, nel napoletano; questo perché, al di là del dibattito ampelografico sulla differenziazione genetica dei ceppi del beneventano e dei Campi Flegrei, che costituirebbero 2 distinti vitigni, i prodotti provenienti da questo territorio sono apparsi dotati di carattere e personalità mediamente superiori, rispecchiando, con le note minerali ed i sentori di flora mediterranea, il carattere dei difficili e particolarissimi terreni che hanno nutrito le uve.
Per quanto attiene ai vini del beneventano, lo scenario generale suscita qualche perplessità in più, pur tenendo conto delle condizioni ambientali ed, in particolare, della temperatura elevata dei vini, che ha probabilmente condizionato leggermente il giudizio.
Di norma questi vini presentano caratteri olfattivi piuttosto semplici ed accattivanti, caratterizzati da tipici sentori di frutta (ananas soprattutto) e di fiori (ginestra, zagara tra gli altri), palato con discreto equilibrio tra acidità e sapidità, finezza per lo più non eccelsa, persistenza piuttosto limitata, conseguenza di un corpo mai particolarmente apprezzabile. Nel complesso, questi vini non colpiscono per personalità, risultando, anzi, un po’ banali ed inconsistenti. Inoltre, bisogna segnalare una volta di più un uso assolutamente gratuito e sconsiderato del legno, che, forse nel tentativo di aumentare la complessità dei vini, sortisce un effetto assolutamente coprente, annullando le tipiche sensazioni di freschezza e banalizzando anche qualche prodotto che, invece, tra le righe, lasciava intravedere qualcosa di promettente.
Dei 48 campioni degustati, meno di una decina ci ha impressionato favorevolmente, denotando carattere, oltre che finezza al disopra della media. Di questo ristretto novero facevano parte 2 vini passiti, che, invece, hanno costituito una piacevole sorpresa.
Tra i prodotti che hanno suscitato un giudizio positivo, segnaliamo le conferme di 2 punte dell’enologia beneventana quali Fontanavecchia di Libero Rillo e Agricola del Monte di Ocone e le rivelazioni di Vinicola Del Vecchio e Aia dei Colombi, provenienti entrambi da un’area, quella di Solopaca – Gardia Sanframondi, che non sempre s’è distinta per le produzioni di pregio.