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La (prima) verticale del Brillèro di Poggio Concezione

con la collaborazione di roberto muzi

È stata una degustazione preziosa, per le persone che vi hanno partecipato e, soprattutto, per noi di Porthos. I motivi principali sono due. In primo luogo, la possibilità di offrire agli allievi e alle allieve del nostro progetto didattico un confronto inusuale: la produttrice che racconta, proprio mentre accade, come sta cambiando il suo percorso tecnico e di conoscenza.

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Abituati ad aziende e a persone colme di certezze, l’ascolto di Susanna Patalacci ci ha disorientato, ci ha fatto sentire vicini alle sue vicissitudini e, contestualmente, ci ha permesso di percepire più profondamente il tormento dei vini di Poggio Concezione. Inoltre, l’opportunità di entrare in contatto con il terroir di Pitigliano, con le sue variabili climatiche e l’originale composizione geo-pedologica, ha offerto uno sguardo singolare sul Trebbiano, sui suoi ecotipi e sulle varietà che lo aiutano a non essere così “serioso”.

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Il vino scelto è stato il Brilléro: tre biotipi di trebbiano toscano (tra cui il famoso procanico), ansonica, malvasia e verdello da un ettaro di vigneto di mezzo secolo poggiato interamente su roccia tufacea.

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Siamo partiti dall’annata più vecchia, la 2004, e abbiamo raggiunto la 2011; alla fine abbiamo sentito un campione di Serment dell’annata 2015 dalla vasca, macerato sulle bucce per otto giorni, come a saggiare le potenzialità dei trebbiani quando è forzata parte della loro natura.
La decisione di fare un imbottigliamento per il nostro incontro nasce proprio dalla particolarità di quello che si può considerare un vero e proprio esperimento. Abbiamo assaggiato, inoltre, alcune annate in affinamento in vasca. Si tratta di vini severi, brillanti, salini (2012), pieni, accalorati, saporosi (2013), sottili, affusolati, taglienti (2014), già sereni, materici, ricchi (2015).
Qui di seguito le mie impressioni.

2004
Il colore dorato ha una venatura calda che annuncia un percorso ossidativo; i profumi lo confermano, sebbene l’insieme non diventi mai stucchevole e non vada oltre le note di frutta matura. In bocca è unito, rammenta la sua età e non se ne lagna, piuttosto non riesce a dare un ultimo strappo per farsi sentire nel finale.

2005
Il colore si mostra più fresco del precedente, tuttavia ben presto ci si accorge che si tratta di un vino bloccato attorno alla sua unica certezza, un equilibrio corretto e poco emotivo; è un assaggio utile per capire come un certo modo di produrre, quello del controllo su ogni passaggio, finisca per ridurre anche la capacità del vino di trasformarsi in bottiglia.

2006
L’aspetto visivo lo consegna vivo e invitante. L’impatto odoroso offre altrettanta fresca leggiadria per almeno dieci minuti, durante i quali si rincorrono note verdi e di frutta, eteree e di terra bianca. Il passare del tempo e l’ingresso in bocca svelano anche qui la staticità dell’insieme; è più divertente del 2005, ma non basta a farci tornare al bicchiere.

2007
Il colore mostra qualche disomogeneità, si coglie una lieve velatura e, in alcuni calici, è palese il residuo dell’anidride carbonica, segni evidenti di una fermentazione in bottiglia. Il medesimo disordine è al centro dell’odore, inizialmente segnato da note organiche e poi, via via, sempre più aperto e coinvolgente, quando i primi sentori diventano parte di un mosaico fatto di numerosi e piacevoli riferimenti eterei e marini. In bocca, dopo aver avvertito il previsto e fugace frizzante, apprezziamo sia la spontaneità con cui il liquido tocca le zone sensibili sia le vibrazioni che restano dopo averlo bevuto. Susanna ci ha raccontato che, per errore, al vino imbottigliato sono stati lasciati circa dieci grammi di zucchero non fermentato, inevitabile che i lieviti lo abbiano consumato. Inevitabile che alcune bottiglie non siano così brillanti.

2008
Il colore è giallo netto. Il profumo riprende i temi del 2006 con un’ambizione di maggiore complessità, esce più lentamente e avvolge in modo continuo, regolare. Il passaggio tra naso e bocca restituisce un tentativo di partecipazione gustativa, ciononostante il vino resta ingessato e non è una questione di timidezza emotiva, si tratta proprio della prigione dove è rimasta la sua energia primordiale.

2010
Il colore denota un vissuto più intenso dei precedenti, come se l’oro avesse una venatura antica. Al naso si dona corale, a tratti pungente, la sua dotazione odorosa esprime uno spessore, una stratificazione che va costruendosi alternando il temperamento proprio di un Trebbiano asciutto e perentorio con la dolcezza delle uve colte a piena maturità. La relazione con lo svolgimento gustativo è piena, finalmente possiamo parlare di flusso tattile e sapido, di sensazioni e non solo di segnali superficiali. L’eredità gustativa, l’essere quasi materiale, è la ricompensa più succosa per chi è disposto ad accogliere un bianco vero e pronto a vivere nella bottiglia.

2011
L’aspetto visivo non è dissimile dal precedente. Il comportamento del profumo è articolato, giovanile, esuberante e vigoroso, ma anche consapevole di essere all’inizio di un viaggio che lo porterà a chiudersi; le premesse sono incoraggianti, anche più della versione 2010, perché sembra più elevato il livello di confronto tra le varie anime del vino. Da un lato l’acidità lunga e ficcante, dall’altro la polpa corposa di un’annata di calore e luce: un’armonia da allevare in bottiglia, eppure già pronta a donarsi interamente. La bellezza del Brilléro 2011 è nella sua libertà, quasi una mancanza di pudore quando afferma la radice agricola unita in sposa al saper fare enologico.

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Lieviti e trebbiani, unica prospettiva
di roberto muzi

Abbiamo deciso di implementare e curare con maggiore attenzione la proposta gastronomica di questa stagione didattica. Siamo partiti dall’idea di costruire una collaborazione con alcuni artigiani che, nella conduzione dell’azienda, condividano il nostro approccio: l’attenzione e il rispetto nei confronti del luogo, degli uomini, degli animali e delle piante che lo abitano, fino alla materia prima, alla sua trasformazione e alla vendita.
Ospite gastronomico di quest’incontro è stato Danù, una pizzeria al taglio di Velletri inaugurata nel febbraio 2015 da Augusto Marchetti e David De Rossi. Sembra una follia avviare un progetto così ricercato e ambizioso fuori da un grande centro, in un’area economicamente depressa dalle delocalizzazioni industriali. Tuttavia l’entusiasmo per il magico mondo delle lievitazioni e la volontà ferrea dei due giovani hanno superato le difficoltà di questa scelta.
L’attenta selezione degli ingredienti è tangibile nelle quattro ricette proposte:

– Crema di zucca, funghi galletti (raccolti sotto la montagna di Rocca Massima) e capocollo della Valnerina (selezionato dalla Tradizione);
– Cicoria selvatica e “pomodorini da appicco” su crema di piselli secchi;
– Patate a sfoglia, baccalà alla vicentina, cipolla di Tropea caramellata e cavolo nero;
– Crostini di finocchi, pistacchi, nocciole tostate e burrata di Andria con acciughe di Imperia (da La Tradizione).

Mi è parso, tanto nella maturazione dei vini di Poggio Concezione, quanto nella lievitazione della pizza di Danù, che il tempo sia una base imprescindibile. Susanna ha a cuore che il vino possa formarsi “tutto insieme” nelle vasche in un tempo mai inferiore a tre anni, Augusto consente alla sua pasta di crescere per 48/96 ore e inoltre, per condirla, insegue gli esperti raccoglitori di funghi, collabora con i più bravi orticoltori del territorio e con le “cicoriare” di Giulianello.
La partecipazione emotiva di Augusto è nelle sue parole alla proposta di cucinare per noi: «Vorrei creare alcune ricette che rimandino all’elemento minerale, al vulcano, al tufo caratteristico della zona di Pitigliano». E in ogni pizza emergeva chiaro attraverso gli ingredienti, dai galletti, alla cicoria, al cavolo nero, ai finocchi…