06 Feb Solidità
A qualche sera di distanza da giovedì 31 gennaio, eccomi a riflettere sulle parole e sui vini che abbiamo condiviso.
Innanzitutto il motivo. Ci siamo dedicati a un concetto che, nell’enologia, sembra essere passato di moda e aver lasciato spazio a un desiderio di ‘leggerezza’. La ‘densità’ ha dominato dal principio degli anni Novanta fino a circa un decennio fa, moltissimi l’hanno voluta – accademici, produttori, commercianti, consumatori – sacrificando vocazioni e territori, sensibilità e storie, esattamente come negli anni Ottanta era accaduto in favore della ‘semplicità’ e della ‘spensieratezza’. Quando il “mercato” chiama, bisogna ubbidire. Nel passaggio tra i due secoli, sono state diverse le persone capaci di custodire ciò che amano e che li lega allo spartito di un luogo e ai vitigni che ne sono gli strumenti principali, tanto che noi non ci siamo mai sentiti troppo soli.
L’affermazione del vino naturale ha in parte modificato queste logiche piuttosto rozze – leggero, pesante, denso, acquoso – e ha invitato la produzione, cominciando dalla viticoltura, ad ascoltare, a guardare, a sentire, prima di programmare un risultato. Tuttavia non è bastato, anche perché molti nuovi interpreti del vino naturale mostrano di non aver ancora maturato un senso storico adeguato e pensano sia artistico fare esperimenti intonati sulla moda del momento.
Ci siamo così impegnati a reperire vini, tra i tanti che avremmo potuto inserire, in grado di consegnare le idee e il contesto, la spontaneità o la forzatura del loro nascere. ‘Solidità’ è l’equivalente di ‘fortezza’, materia rassicurante che si fa più bella se contiene anche dello ‘spirito’ e non implode. La scelta è stato un viaggio che ha compreso uno sguardo sull’attualità e un’escursione di vent’anni per capire se la “concentrazione” di ieri si è trasformata e come, se si è evoluta o meno.
L’impressione, che resiste anche dopo alcuni giorni, è che gli enofili presenti alla degustazione guardino alla fortezza col desiderio che un colpo d’ala la sollevi, la faccia volare un po’, amerebbero fosse accompagnata dalla ‘bevibilità’. Eppure, raccogliendo e rivedendo le impressioni ricevute alla fine delle due batterie di quattro vini ciascuna, numerosi partecipanti si sono espressi positivamente sulla ricchezza della materia senza farsi troppe domande; potrebbe essere la nostalgia per un terreno dove puntare i piedi con fiducia. In effetti i “vini contemporanei”, che ci fanno sognare con la loro eterea luminosità, non hanno tanta voglia di ‘fermarsi’, di sostare nella nostra bocca e, se non fosse per la salutare scia salina dei migliori, potremmo dirli poco lunghi, brevi, corti! Altre persone presenti hanno atteso di capire come sarebbe mutata, nel calice e nella memoria, l’incomunicabilità iniziale dei campioni più solidi, in altre parole non si sono fatti lusingare dalle concentrazioni un po’ autoreferenziali, e hanno aspettato che la poesia dei vini più spontanei si diffondesse come un suono, sì materico ma anche sognante, imprevedibile e rivelatorio di un’estetica tanto soggettiva quanto abile a conquistare i cuori all’inizio più gelidi.
È stata una serata complessa, gli argomenti trattati nell’introduzione si sono affastellati anche grazie alle domande che via via si sono succedute. Lo sforzo principale è stato inquadrare lo sviluppo enologico e sociale della nostra nazione che, dopo un periodo quasi autarchico, a partire dalla metà degli anni Settanta ha guardato molto quello che succedeva fuori, nel vecchio e nei nuovi continenti.
Ascoltare e leggere alcuni commenti di persone che sono rimaste quasi sospese e che hanno scoperto di saperne ancora meno, della solidità ma non solo, mi ha convinto dell’utilità di eventi dove non può esserci alcun obiettivo di persuasione, se non quello di continuare a cercare la sintesi tra noi e il vino. Quest’ultimo è straordinariamente sensibile, diffidente e anche tanto difficile da definire, soprattutto se non ci convinciamo di una cosa: per comprendere e godere della sua bellezza è indispensabile donargli una parte consistente di noi e ricomporre ogni volta uno stato amoroso che, per natura, è pronto a dividersi e a tornare insieme.
Ringraziamo Fausto Andi, Marina Cvetic Masciarelli, Nicola Sarzi Amadè, Giorgio Rivetti e Francesco Valentini per l’amicizia e la disponibilità. Un pensiero particolare va alle persone partecipanti che, come accade sempre, hanno nutrito il nostro slancio di conoscenza, e ai colleghi che hanno lavorato per rendere l’unicità dell’esperienza porthosiana.
Dopo il racconto della degustazione trovate la poesia che abbiamo scelto per accompagnare la serata.
Prima batteria
Malvazija Sveti Jakov 2015 Giorgio Clai (Krasica/Buje)
Si apre come fa la coda del pavone, può infatti apparire vanitoso con la sua carica aromatica e l’aria di mare che finisce dritta in gola; è il calore dell’alcol a sostenere la solidità, questo lo rende a tratti soave e a tratti ingombrante, pur in una suggestione appassionata e voluttuosa; se ne infischia della croccantezza, gli basta la sua dinamica lucente per farsi amare fino all’ultima goccia, un estratto di frutta gialla ed erbe diluito mirabilmente da un sorso d’acqua.
Colli Orientali del Friuli Rosso (merlot e refosco) Miani 2015 (Buttrio)
Cerca subito di togliersi dalla contesa della solidità, contravvenendo alle aspettative di un ‘nero’ impenetrabile e possente; l’animo fresco, vegetale e di frutti rossi, non è solo di superficie, come dimostra la vitalità gustativa, allo stesso tempo però la struttura del sapore non se ne giova e il passare dei minuti è impietoso nel far emergere una stasi, un’assenza di emotività.
Barbera 2010 Fausto Andi (Montù Beccaria)
È nella posizione sbagliata… forse nella degustazione sbagliata… sebbene la sua concentrazione sia di una fortezza impareggiabile; disorienta sin dal colore, mattone-ambra denso, maturo e cupo, quasi un giovane Pedro Ximénez ancora in affinamento, il profumo è pungente, l’alcol e l’acidità volatile lo “proteggono” da chi non ha la pazienza di aspettare; l’ingresso in bocca è dolce, contraddetto quasi istantaneamente dall’acidità e dalla forza degli estratti, finalmente efficaci nell’archetipico scontro tra morbidezza e durezza; l’alcol inonda le sensazioni finali rivelando la qualità odorosa di un vino che sa di frutta e carne, di radici e terra.
Montepulciano d’Abruzzo Riserva Villa Gemma 2013 Masciarelli (San Martino sulla Marrucina)
Lo abbiamo voluto perché è un predestinato della solidità, esattamente come l’ha voluto Gianni ai suoi tempi; ancora oggi, sin dall’aspetto visivo non lascia dubbi, è concentrato e muscolare, i sentori impolverati – che ritornano nel 2000 assaggiato poco dopo – evocano la maturazione nelle botti piccole, senza alcun eccesso, con studiata misura; lo sviluppo è serrato e centrale, agli antipodi del precedente, benché ne condivida l’impronta sanguigna; non riesco a sentirlo vicino, c’è una parte di me che non si riconcilia più con espressioni talmente solide da consegnarsi monolitiche, buchi neri che, a dispetto dell’iniziale avvenenza, non ti lasciano scampo.
Seconda batteria
Barbera d’Asti superiore 1998 La Spinetta (Castagnole Lanze)
Ai suoi tempi mi piaceva molto, l’ho considerato un campione di forza e di eleganza, m’impressionava la tensione acida a fronte di una ricchezza che di solito, per gli altri, si associava a morbidezze stucchevoli. In questi vent’anni l’ho sentito diverse volte e progressivamente quella passione si è affievolita, mi è parso sempre più imprigionato e l’altra sera ha confessato di non avere speranze. È ancora in grado di gridare il suo essere ostaggio di un modello, di cui il rovere è stato lo strumento di tortura, tuttavia è troppo tardi per uscirne e sebbene il suo slancio continui a commuovermi, non posso fare nulla per salvarlo.
Montepulciano d’Abruzzo Villa Gemma 2000 Masciarelli (San Martino sulla Marrucina)
Come nel precedente, la barrique è stata determinante per schiavizzare la personalità gagliarda ed esuberante del vitigno, ma sarebbe un errore credere che l’influenza del rovere sia sola: le fondamenta di questa prigione dorata sono costruite nel vigneto. Gianni Masciarelli ha sempre dichiarato la sua preferenza per un Montepulciano coltivato a guyot, con rese per pianta bassissime e conseguente iperconcentrazione; il cambiamento climatico ha fatto il resto generando dei mostri di solidità che ancora oggi appaiono immobili, quasi a sfidare il concetto di naturale decadenza, una sorta di esperimenti di eternità. Facciamo attenzione però, nulla è immutabile ed è agghiacciante scoprire che dopo un po’ si è persa la distinzione tra prigioniero e carceriere, non si capisce più se è il vino, come modello, a tenere in scacco il produttore, o viceversa. Assistiamo a una lenta disgregazione, priva di consapevolezza e sensualità.
Montepulciano d’Abruzzo 2000 Valentini (Loreto Aprutino)
È il contrario del Montepulciano di Masciarelli e della Barbera di Rivetti. Colore mattone stagionato, impatto odoroso organico e spiazzante, un coacervo gustativo inesauribile ed etereo, concentrato e, nello stesso tempo, impalpabile; considerato «con un piede nella fossa», conquista progressivamente anche i più scettici. È un cavallo di Troia: al naso appare minaccioso, incapace di donare certezze; appena lo si mette in bocca sviluppa il suo piano di conquista, inizia la coesione gusto-olfattiva dalla quale scaturiscono i sentori animali che all’inizio sembravano impossibili da accettare, poi c’è la trama del sapore che si distende tesa e consistente, priva di smagliature. A differenza di altri vini di Valentini non era un campione di solidità neanche in gioventù, ora però mano mano che si svela nel calice restituisce una complessità profonda, come se le sue dimensioni si siano amplificate. Non ha molto da difendere, se non la sua crepuscolare umanità.
Alsace Grand Cru Pinot Gris “Rangen de Thann” 2013 Zind-Umbrecht (Turckheim)
È un fuoriclasse, un bianco di straordinaria potenza applicata al godimento. Impossibile non notare l’amabilità del suo ingresso in bocca e il tratto soave col quale cresce fino al cuore della lingua, dove esplode la fervida e coinvolgente ricchezza. L’unità ha ancora degli aspetti semplici, dovuti all’ingenua esuberanza con la quale si dona dalla prima all’ultima goccia; il velo leggerissimo di anidride carbonica testimonia una vitalità in continua trasformazione, la stoffa gustativa è il piano di lavoro dove la solidità degli estratti e l’energia dell’alcol si preparano per unirsi in una complessa e multiforme pienezza di sfumature. La quasi neutralità del Pinot Gris è un’alleata della scelta naturale di lasciar vivere integralmente e spontaneamente l’anima fermentativa del processo, il produttore sa che il tempo gratificherà la varietà odorosa, non tanto quale mera esposizione di mercanzia, quanto tenace e resistente flusso che sgorga dall’interno e consegna finalmente una reale e tangibile infinità, mineralità.
Donne appassionate di Cesare Pavese da Lavorare stanca 1936-1943 Einaudi
Le ragazze al crepuscolo scendono in acqua,
quando il mare svanisce, disteso. Nel bosco
ogni foglia trasale, mentre emergono caute
sulla sabbia e si siedono a riva. La schiuma
fa i suoi giochi inquieti, lungo l’acqua remota.
Le ragazze han paura delle alghe sepolte
sotto le onde, che afferrano le gambe e le spalle:
quant’è nudo, del corpo. Rimontano rapide a riva
e si chiamano a nome, guardandosi intorno.
Anche le ombre sul fondo del mare, nel buio,
sono enormi e si vedono muovere incerte,
come attratte dai corpi che passano. Il bosco
è un rifugio tranquillo, nel sole calante,
più che il greto, ma piace alle scure ragazze
star sedute all’aperto, nel lenzuolo raccolto.
Stanno tutte accosciate, serrando il lenzuolo
alle gambe, e contemplano il mare disteso
come un prato al crepuscolo. Oserebbe qualcuna
ora stendersi nuda in un prato? Dal mare
balzerebbero le alghe, che sfiorano i piedi,
a ghermire e ravvolgere il corpo tremante.
Ci son occhi nel mare, che traspaiono a volte.
Quell’ignota straniera, che nuotava di notte
sola e nuda, nel buio quando muta la luna,
è scomparsa una notte e non torna mai più.
Era grande e doveva esser bianca abbagliante
perché gli occhi, dal fondo del mare, giungessero a lei.