15 Gen Un Pecorino
verso la riscoperta dei vitigni autoctoni.
da Paolo Merlini e Maurizio Silvestri, Un altro viaggio nelle Marche, 2012, Exòrma Edizioni
Nel vino è spesso solo una questione di tempo. Sono passati quasi trent’anni dalla riscoperta agronomica del Pecorino e dalle prime vinificazioni di Guido Cocci Grifoni, ma questo vitigno bianco tipico della dorsale piceno-aprutina continua a essere un’entità poco decifrabile per molti appassionati e osservatori, anche coloro i quali abitano le terre abruzzesi e marchigiane. D’altra parte trent’anni di coltivazione e vinificazione sono un intervallo di tempo troppo breve per comprendere il comportamento di un vitigno in un territorio, per di più in un’epoca di cambiamento climatico che ogni anno rischia di scombinare e vanificare certezze acquisite. Negli ultimi anni molto impegno è stato profuso per regolare questioni, più che altro, “di etichetta”: a partire dalla vendemmia 2011 l’Offida Pecorino è stato promosso a Docg con la conseguente creazione della Doc di ricaduta Falerio Pecorino, mentre in Abruzzo è entrata in vigore la Doc Abruzzo Pecorino che riguarda tutto il territorio regionale. Tuttavia dal punto di vista espressivo non è cambiato granché. Sia a nord che a sud del fiume Tronto prevale, con poche eccezioni, un approccio appiattito sulle tendenze del momento e, per numerosi produttori, il Pecorino continua a essere un work in progress, con la conseguenza di poter trovare vini dagli stili più variegati, molto differenti tra di loro. Ciò nonostante il mercato continua a premiare i vini prodotti da questo vitigno e il risultato è che, nelle Marche come in Abruzzo, il numero delle etichette di Pecorino è arrivato ormai cinquanta. Se si considera che alla fine degli anni novanta i produttori totali si contavano sulle dita di una mano, non si fatica a capire che la progressione ha qualcosa di prodigioso.
Da parte nostra, quattro anni fa abbiamo dedicato una degustazione ai Pecorini del Piceno e una parziale verticale del Pecorino di Luigi Cataldi Madonna. Tuttavia misurarci attraverso una verticale più profonda è stata l’occasione per fare un’indagine sulla relazione tra il Pecorino e il tempo, e provare a capire se sia davvero un vino da invecchiamento, come è nelle convinzioni di molti produttori. La degustazione ha riguardato il Fiobbo, l’Offida Pecorino dell’azienda Aurora. Questa cantina del Piceno e il pioniere Cocci Grifoni, per diversi anni, sono stati gli unici a credere in questo vitigno e a produrre bottiglie, insieme a Poderi Capecci e Cataldi Madonna. Per tutte queste realtà è stato fondamentale il lavoro di ricerca del professor Leonardo Seghetti, già consulente di Cocci Grifoni e di Dora Sarchese, azienda che aveva iniziato a coltivare Pecorino dalla fine degli anni ottanta per imbottigliarlo solo dopo il 2000.
Aurora
Un nome comune per una società agricola speciale, fondata da un gruppo di ragazzi che, nel 1980, scelsero l’agricoltura per dare corpo a ideali di autogestione, solidarietà nel lavoro, vita comunitaria, rispetto della natura. Pochi ettari e un casale semi diroccato sulle colline del comune di Offida furono la base per un’impresa impostata secondo le regole dell’agricoltura naturale. A metà degli anni ottanta diedero vita, insieme a pochi altri colleghi, all’AMAB (Associazione Marchigiana Agricoltura Biologica).
Oggi è condotta da cinque soci lavoratori, la casa è stata gradualmente restaurata in bioedilizia divenendo anche agriturismo. Gli ettari di proprietà sono oggi trentadue, di cui la metà di boschi e solo dieci piantati a vite, integrati con uliveti, frutteti e campi di seminativo, nella convinzione che la biodiversità sia il pilastro di una conduzione responsabile, oltre che biologica, della terra. Tra gli ettari vitati, sei sono dedicati alle uve rosse di cui oltre la metà Montepulciano, seguito da Sangiovese, Ciliegiolo, Cabernet Sauvignon e Merlot; tra i bianchi oltre al Pecorino sono allevati Passerina e Trebbiano. I vigneti si trovano a 180 metri di altitudine, l’Adriatico è solo a una decina di chilometri in linea d’aria, ma alzando appena lo sguardo l’occhio si perde tra l’arco azzurro dei Sibillini e le vette del Gran Sasso e dei Monti delle Laga che sembrano proprio lì, a portata di mano.
Il Fiobbo
È un torrente che nasce nel territorio di Offida, nei pressi della piccola chiesa rurale di San Giovanni in Strada tra le colline del Piceno più meridionale, e termina la sua placida corsa nel Tronto, al confine con l’Abruzzo. Un tratto del suo corso delimita a nord i poderi di Aurora, motivo per cui Fiobbo è il nome che l’azienda ha dato al suo Pecorino. In realtà non lo è stato dall’inizio, l’Aurora imbottiglia Pecorino dal 1996 e a quel tempo il vino si chiamava Fiorile (in omaggio ai mesi del calendario rivoluzionario francese); con tale nome è rimasto fino al 2000, annata in cui, per un’omonimia con un azienda che aveva registrato questo nome commerciale, fu cambiato in Fiobbo.
La coltivazione del Pecorino era iniziata nel 1991/92 con l’impianto del primo vigneto di 5 tavole (unità di misura tipica di Marche e Umbria, 1 tavola è equivalente a 1000 metri quadrati), esposto a meridione. Ci sono volute alcune vendemmie per accorgersi che l’esposizione era sbagliata: a sud il Pecorino produceva pochissimo senza un corrispondente miglioramento della qualità dell’uva. Dieci anni dopo quel vigneto sarebbe stato spiantato.
Il Fiobbo attualmente è ottenuto da un vigneto di Pecorino di 2,1 ettari, di cui due terzi impiantati nel 1996 e il resto nel 2006. La vigna, con esposizione tutta a nord, ha una densità di impianto di 3000 ceppi per ettaro, provenienti da selezione massale1. La forma di allevamento è il guyot gestito con una potatura piuttosto lunga, che può arrivare fino a dodici gemme, perché il Pecorino è sterile su quelle basali. La resa in un’annata regolare è di 45/50 quintali per ettaro.
Sin dall’inizio quelli di Aurora hanno creduto che, in assenza di una spiccata dotazione aromatica, del Pecorino doveva essere gestita la ricchezza alcolica e valorizzata la robusta acidità, quindi nel tempo non ne hanno modificato l’interpretazione. Un approccio che ha previsto l’utilizzo del legno (prima barrique, poi botti di media grandezza) per la fermentazione e l’invecchiamento di una parte del vino, componente che è gradualmente salita all’attuale 50% e che ha portato l’azienda ad aumentare i mesi di maturazione e alla decisione di “saltare un’annata” e di posticipare l’uscita sul mercato.
La vinificazione è la classica in bianco con pressatura soffice effettuata con una pressa pneumatica. Una metà del mosto svolge le fermentazioni in botti di rovere da 15 ettolitri nelle quali prosegue la maturazione sulle fecce, mentre l’altra metà svolge l’analogo percorso in acciaio. Dopo dodici mesi le due anime si ricongiungono per l’assemblaggio e la successiva messa in bottiglia, dove affina da 3 a 6 mesi prima dell’uscita sul mercato. Le fermentazioni si sono svolte con l’ausilio, in parte o in toto, di lieviti selezionati neutri fino al 2007, dall’annata successiva sono spontanee con il sistema del pied de cuve. Il livello dichiarato di solforosa totale all’imbottigliamento è al massimo di 80 mg/litro. Ne vengono prodotte tra le 7000 le 8000 bottiglie all’anno. Il prezzo in cantina è 9 euro.
1Attualmente in circolazione ci sono solo due cloni di Pecorino: 1 ISV selezionato dall’Istituto di Conegliano da vigneti della zona di Cossignano (AP); UBA-RA PE 19 selezionato dall’università di Bari in collaborazione con la Regione Abruzzo da vigneti in provincia dell’Aquila. Tutto il resto del patrimonio è costituito da biotipi del vitigno.