Zingara, Opec e calabresi

 Sui naturali al Vinitaly, il Prosecco e il petrolio, i calabresi e la promozione.

Non ci voleva la zingara
Davvero, non c’era bisogno di particolari capacità predittive per immaginare come sarebbe andata a finire. La notizia, nel piccolo mondo del vino, ha un suo rilievo: dopo anni di orgogliosa distanza da Vinitaly, un gruppo di produttori della galassia naturale decide di tornare all’ovile, pardon, di essere presenti alla più grande e importante manifestazione italiana sul vino. Orgogliosamente, è ovvio.
Inevitabili le polemiche e i distinguo fra chi va e chi resta (fuori), ma chissà che tutto ciò non faccia bene, oltre che agli organizzatori di Vinitaly, anche al “movimento”, cioè a quel coacervo di produttori, riuniti (divisi?) in non so più quante associazioni, litigiosamente accomunati da un’idea di vino non industriale, non convenzionale. Quell’idea, insomma, che sembrava tenerli lontani da manifestazioni dominate dall’establishment e da un altro approccio al vino. Resta il fatto che la grande kermesse veronese è uno sbocco naturale (pardon) per chi vuole vendere le proprie bottiglie: ci sono i buyers, c’è la tv, c’è tanta gente. E, probabilmente, questa volta fa più notizia esserci che non esserci.
Un po’ come al festival di Sanremo. Tanti anni fa era trendy non andarci, oggi ci vanno anche i cantautori che in passato si definivano ”impegnati”. E vincono persino. Certo, le canzoni si fanno più orecchiabili, ma a furia di sentirle ci si abitua.

L’Opec e il prosecco
E’ di questi giorni la firma di due decreti della regione Veneto, tesi a limitare la produzione di prosecco. L’intervento legislativo ferma a 20.000 gli ettari coltivabili fino al 2014, nella speranza che i prezzi del prosecco non calino. Immediato il plauso generale, dai commentatori alle organizzazioni di categoria, tutti a elogiare il presidente Zaia per la saggia decisione. Non me ne voglia l’aitante presidente, ma saranno le sue giacche blu o il capello impomatato, non so, il fatto è che mi è venuto in mente lo sceicco Yamani, già ministro del petrolio dell’Arabia Saudita e per più di vent’anni segretario dell’Opec1. Ideatore dell’embargo petrolifero, instancabile mediatore tra falchi e colombe, Yamani trasformò il controllo del prezzo di una commodity in arma politica. Il prezzo del greggio calava? L’ineffabile Yamani diminuiva la produzione ed ecco che il barile risaliva. Serviva un aiuto all’occidente? Yamani aumentava l’estrazione e il prezzo scendeva. Mutatis mutandis (ovvero blazer contro dishdasha2), per il prosecco è la stessa musica. La domanda aumenta? Si moltiplichino i vigneti, per legge. Il prezzo scricchiola? Si limitino le vigne, per decreto.
Lo so, l’accostamento prosecco–commodity è fastidioso, ma è fastidioso anche lo scarso rispetto verso i consumatori, quello che si dimostra attraverso provvedimenti a fisarmonica, giustificati soltanto dall’interesse (pro tempore) di chi sta dalla parte giusta del bancone, quella del cassetto. Nel nome, ovviamente, del sacro territorio.

Calabrese a chi?

Non bevo vino calabrese dal dicembre del 1996, e sto bene così. Per giunta, compro pochi prodotti calabresi, quasi niente. E sono calabrese, in ogni quarto. Ma facciamo un passo indietro, come nei romanzi.
 Giorni fa, non so più se su Facebook o via email, scopro l’esistenza di un nuovo marchio e del relativo sito internet: io bevo vinocalabrese.it. Responsabilmente, ovvio. 
Attraverso questo marchio, i promotori dell’iniziativa intendono “generare curiosità” verso il vino calabrese e “alimentare il legame identitario che produce la terra calabra”.  
Il messaggio, definito “forte”, è veicolato dalla foto di un anziano signore, in pantaloni cachi e maglietta col refrain, sprofondato su una sedia bisognosa di un impagliatore. Tutt’altro che banale, lo riconosco, ma è il il refrain che proprio non mi piace. Così come non mi piace l’idea stessa di marketing identitario, alla base dello sforzo di comunicazione dei promoter. Sforzo di cui, sia chiaro, la Calabria ha un forte bisogno. E allora sì ai tentativi in ogni direzione, per uscire cartesianamente dall’anonima oscurità della foresta, ma non basta invocare l’appartenenza per sviluppare interesse e attenzione. Perché dovrei bere vino calabrese? Per il sangue o per il suolo? O per onorare la memoria di zio Mimì, che nella sua vita fu anche cantiniere? Comprare o consumare un vino perché calabrese o valdostano significa abbassarlo al rango di un souvenir, come lo strofinaccio con i personaggi in costume e la cartina. Io vorrei bere vino calabrese semplicemente perché degno di essere bevuto. Responsabilmente, ovvio. 
Sebbene estranea alle intenzioni degli ideatori, giovani e sicuramente lontani da un certo modello culturale, il richiamo al marketing identitario mi ricorda le lettere che i vecchi politicanti calabri mandavano ai “paesani” inurbati al nord, nella speranza di aggiudicarsene il voto. Se non ci si aiuta fra noi… 
Non è neppure un’idea originale. Qualche tempo addietro, ricevetti un comunicato stampa che annunciava l’avvio della campagna “Consuma e Spendi Calabrese” per la valorizzazione dei prodotti regionali. Protagonista, il presidente dei giovani industriali della regione, Sebastiano Caffo. Il quale, dopo una prima spolverata di retorica, va al punto: “Ogni Calabrese che vive in Italia o all’estero, può contribuire in modo determinante alla creazione di una Calabria migliore, semplicemente scegliendo di CONSUMARE i prodotti del nostro territorio. E’ giusto che i consumatori capiscano che dietro ogni prodotto calabrese, ci sono uomini che si impegnano ogni giorno a far funzionare le aziende nonostante le difficoltà quotidiane, contribuendo allo sviluppo del nostro territorio, creando occupazione e veicolando sui mercati internazionali il brand CALABRIA .”
Peccato che il brand Calabria non esista se non nelle intenzioni di chi ne parla, e che i prodotti non vivano di retorica, per quanto appassionata. Basti dire che, fra i “prodotti del territorio”, il più famoso è la ‘nduja, che da prodotto di scarto è diventata un tormentone. Alla faccia dei discorsi sull’eccellenza. 
Insomma, tutti gli sforzi di chi s’impegna per una causa difficile come quella calabrese sono lodevoli, ma c’è bisogno di un passo in più, sia nella produzione, sia nel marketing, perché chi si avvicina ai prodotti calabresi possa comprarli con convinzione, senza doversi rifugiare nell’identità o nella solidarietà per giustificare una scelta. Lo scrivo, permettete, con un pizzico di calabresissimo orgoglio.

 

1. Organizzazione che riunisce i paesi produttori di petrolio.
2. Tunica bianca, usata dai ceti abbienti dell’Arabia Saudita.