BiodiVino

La mattina di sabato 11 giugno si è svolto il convegno della seconda rassegna intitolata “BiodiVino”, dedicata al vino da agricoltura biologica. A promuovere l’evento, oltre alla Provincia, l’Associazione Italiana Agricoltura Biologica, l’associazione Città del Bio e il comune di Trisobbio, la seconda località in cui si svolgeva la manifestazione. C’era anche Porthos, con il compito di animare il dibattito insieme a una manciata di vignaioli: Fabrizio Niccolaini e Patrizia Bartolini, Giovanna Morganti, Beppe Rinaldi, Elisabetta Castellucci. Nel corso del convegno sono intervenuti Ignazio Garau (presidente Aiab Piemonte), Davide Sandalo (assessore all’Agricoltura della provincia di Alessandria), Diego Motta (assessore all’Agricoltura e al Commercio del comune di Alessandria), Antonio Facchino (sindaco di Trisobbio e vice presidente del Consorzio Tutela Dolcetto di Ovada), Luigia Zucchi (presidente associazione BioAlessandria), Gianfranco Torelli (associazione Città del Bio) e Gianni Trioli (Vinidea Piacenza). In platea, tra una cinquantina di presenti, altri produttori come Walter Massa e Baldo Cappellano. Può darsi che i mezzi disponibili per la promozione fossero ridotti, può darsi che la sede e il giorno prescelti per il convegno non fossero particolarmente propizi, può darsi soprattutto che l’argomento soffra di un’inflazione comprensibile: di vino e di agricoltura biologica pare che vogliano parlare tutti. Il consumatore, per sprovveduto che possa sembrare, subodora l’interesse commerciale che sta dietro ad alcune iniziative. E’ anche probabile che altri aspetti ci sfuggano, e che qualche decina di partecipanti non fosse, nello specifico, un risultato da disdegnare. Date queste ipotesi, pensiamo che il convegno sia stato un successo. Ne sono uscite varie considerazioni interessanti e l’impegno comune a proseguire la discussione. In sintesi, dal nostro punto di vista l’agricoltura biologica: 1) sta mettendo dei punti fissi e definendo il suo ruolo; 2) è già in parte superata e chi la pratica o la frequenta per lavoro sa che non è la sola via possibile né una risposta miracolosa.

 

Dei vini e della terra

Sandro Sangiorgi: “In occasioni come questa e non solo si parla molto di qualità. E’ un termine che si usa continuamente ma non è sempre chiaro che cosa implichi. Come ha detto Ignazio Garau, la qualità in agricoltura biologica deve coinvolgere l’etica, l’ecologia e la bontà organolettica dei prodotti. Per quanto riguarda i vini, penso che la svolta si sia avuta qualche anno fa, quando si uscì dalla logica del modello espressivo e si iniziò a capire che al di là della loro confezione impeccabile i vini devono essere interessanti nel senso più nobile del termine. Devono essere «magnetici», cioè attirare la nostra attenzione e soprattutto imporsi nella memoria”.

Elisabetta Castellucci: “E’ quel che penso anch’io. Non so se i miei vini siano così, ma vorrei che lo fossero. Per me il cammino è lungo, una decina di anni fa non mi occupavo affatto di viticoltura e vivevo a Genova. Poi abbiamo ereditato l’azienda agricola di Acqui Terme dai miei suoceri e sui tre ettari attuali facciamo bio con soli vitigni autoctoni da cinque anni. E’ un inizio, ma credo che la biologia sia l’agricoltura del futuro”.

Sangiorgi: “Sa che sarà molto dura, vero? Sa che attraverserà dei momenti in cui avrà voglia di mollare tutto”?

Castellucci: “Lo so”.

Sangiorgi: “Senta, lei sta iniziando. Oggi ci sono spinte politico-finanziarie nel senso dell’accorpamento della produzione, sul modello usa o Australia; si dice che la concentrazione sia il modulo vincente”.

Castellucci: “Io penso il contrario. Almeno nel caso del Vecchio Continente, il bello è la frammentazione della produzione, che ci dà tutta questa varietà”.

Sangiorgi: “Che cosa ne dice una persona che ha già intrapreso questa strada anni fa, costruendo una situazione complessa ma fortemente voluta? Giovanna”?

Giovanna Morganti: “Oggi io ho la sensazione che tutto il processo viticolo vada semplificato. Più passa il tempo e più ho voglia di fare in modo che le cose siano elementari. C’è una caratteristica nel profumo della terra che esce e cresce solo con il tempo, e che va di pari passo con la semplificazione. L’uva esprime il gusto della terra quando le radici della vite vanno in profondità, e in questo la biologia non ci aiuta particolarmente. E’ la conoscenza, è la consapevolezza [in fondo ciò che il marketing moderno chiama savoir faire, o più spesso know how, ndr] che ti viene in soccorso su questo terreno. Ancora oggi se leggi Columella ti accorgi che ci sono delle conoscenze insuperate. E’ possibile che ci siamo dimenticati tutto questo?! Il rischio attuale è di voler applicare l’agricoltura biologica sulla pratica agricola degli ultimi cinquant’anni. Insomma: non cambiare nulla se non togliere la chimica di sintesi. Questo non basta. Perciò devo dire che faccio fatica a parlare di terroir”.

Sangiorgi: “Credi che la ferita più grave per la viticoltura resti la fillossera”?

Morganti: “Penso di sì. In certe zone si potrà forse riportare il piede franco un giorno, ma… A Montalcino, ad esempio, ho visto viti innestate su piede americano piene di fillossera. La fillossera ha ripreso a fare il proprio ciclo completo nonostante il piede americano ed enormi quantità di insetticidi. Quando il territorio è devastato… Certo, a Montalcino non c’è disoccupazione e la gente gira in Ferrari, ma ci si è molto distanziati dai campi. Ma al di là del piede franco, il traguardo più ambizioso, la cosa più bella in cui si possa sperare è riuscire a restituire alla vite la propria sessualità. Cioè ridarle la capacità di riprodursi attraverso il seme. Chi ci è riuscito ha viti che si radicano in maniera impressionante. La pianta ha un’informazione tale per cui la sua radice principale va giù immediatamente”.

Dei prezzi e dei costi

Sangiorgi: “Tra noi ci sono due produttori, Fabrizio e Patrizia, che hanno deciso di tornare a vendere il vino sfuso. Qualche tempo fa un produttore al quale posi la domanda mi rispose che sarebbe una follia, un suicidio, tale è la cattiva reputazione dello sfuso. Ci spieghi perché avete fatto questa scelta, Fabrizio”?

Fabrizio Niccolaini: “Bisogna dire che il contesto è curioso: qualche anno fa si vendeva qualsiasi cosa a 50 euro la bottiglia, per il solo gusto di avere in cantina il vino blasonato. Oggi chi ha dei costi e continua a vendere il vino abbastanza caro come ha sempre fatto viene criminalizzato. Noi abbiamo ricevuto delle accuse ridicole e irritanti da certa stampa… Ma indipendentemente da questo, ci è sembrato giusto porci il problema di cosa fare. Produrre il vino come lo facciamo noi ha dei costi, non bisogna prendersi in giro. Però vendere bottiglie che partono da casa nostra tra i 13 e i 17 euro significa vederle a 40 in enoteca e a 80 al ristorante. Per chi ha uno stipendio normale è un problema. Allora abbiamo scelto di commercializzare due tipologie di vino in damigianette da dieci litri, fornendo gli stessi tappi che usiamo noi e un foglio con le istruzioni per imbottigliarlo da sé. Lo sfuso costa 10 euro al litro e uno riesce a mettere in cantina una dozzina di bottiglie che sono costate 8 euro l’una. Per adesso questa proposta riscuote un successo limitato. Vedremo. Il fatto è che l’alimentazione è diventata un privilegio e questo non riguarda solo il vino. Le cose vive e sane stanno diventando un lusso per pochi; gli altri al limite dispongono di alimenti privi di veleni, ma anche privi di vera vita”.

Beppe Rinaldi: “Un’azienda agricola seria deve farsi i conti in tasca, non è un bengodi. Con queste cose non si scherza. Ma c’è qualcosa di più. Quando ereditai da mio padre, facevo il veterinario. Avevo messo in conto che sarebbe stata un’attività provvisoria, perché prima o poi «mi sarebbe toccato ereditare». Certo è avvenuto prima del previsto. Dico sempre che ho ricevuto un badò, che in dialetto piemontese significa «fardello»: la casa, i vigneti… Quando erediti una cosa così hai dei retaggi, se li accetti, e ricevi con essi un’etica di vita perché sai bene che quella casa l’hanno fatta i nonni con il vino sfuso togliendosi il pane di bocca… non c’era altro all’epoca”.

Sangiorgi: “E tu che cosa ti aspetti per il futuro”?

Rinaldi: “Vorrei continuare a sognare”.

Sangiorgi: “Che cosa significa”?

Rinaldi: “Significa godere delle cose belle della vita facendo delle cose normali, quotidiane, come accorgersi di quant’è buona una ciliegia quand’è matura. E’ la normalità che consolida una vita; se si fugge dalla normalità si violenta con essa il territorio. Fare delle cose normali è quello che abbiamo sempre avuto. Io considero un privilegio la possibilità di fare un vino come il Barolo”.

Niccolaini: “La normalità è la vera essenza dell’agricoltura. Non si tratta tanto di sostituire i prodotti chimici con prodotti naturali, quanto di cambiare i meccanismi di mercato che hanno asservito il contadino negli ultimi decenni. Da quando l’agricoltura è entrata nella logica della produzione industriale, il coltivatore o l’allevatore sono diventati gradualmente dei semplici fornitori di materia prima. Una materia prima che dev’essere funzionale alla trasformazione industriale che seguirà. Prima di porsi il problema di fare agricoltura biologica o meno, occorre fare i conti con la realtà. Bisogna tornare all’agricoltura artigianale, che prevede innanzi tutto la presenza fisica costante del contadino nel proprio podere…”

Ignazio Garau: “Vorrei che intervenisse anche Gianfranco Torelli, vice sindaco di Bubbio, e a sua volta viticoltore, che credo abbia delle cose interessanti da dirci”.

Gianfranco Torelli: “Il nostro è un piccolo paese dell’Alessandrino. Quasi per provocazione qualche tempo fa abbiamo dichiarato il territorio comunale libero da ogm. Gli organismi geneticamente modificati sono la logica continuazione di questo sistema di industrializzazione dell’agricoltura iniziato nel secondo dopoguerra. Quando Ignazio mi chiese se il nostro Comune voleva far parte dell’associaione Città del Bio, tentennai. Non capivo quale fosse l’interesse particolare ad unirsi all’ennesima associazione… Pochi mesi fa invece abbiamo deciso di accettare. Ci ha convinti lo spirito di fondo, che si può sintetizzare all’incirca così: promuovere la coltura del bio passando attraverso la cultura del bio. La mentalità sta al centro di tutto, e occorre anche chiarire alcune cose. Ad esempio, io credo fermamente nella scienza, ma sono molto deluso dalla scienza attuale. L’agricoltura biologica ha bisogno della scienza, non è affatto oscurantista nei suoi confronti; ma ha bisogno di una scienza vera, il che implica innanzi tutto una scienza libera. Oggi la ricerca pubblica sta abbassando il tiro e la guardia; il grosso della ricerca è nelle mani delle grandi multinazionali o comunque dei privati. Sono gli stessi soggetti che negli ultimi decenni hanno promosso i prodotti di sintesi e le biotecnologie. Vorrei sapere che interesse dovrebbero avere a condurre ricerche che portino a fare a meno di questi prodotti o della sudditanza industriale cui è legata l’agricoltura. Non possiamo aspettarci che siano le multinazionali a fare la ricerca”.

In questi paragrafi non c’è un resoconto completo del convegno, ma solo qualche stralcio che ci è parso particolarmente forte. Nel corso della mattinata qualcuno deve essersi chiesto dove fosse finito il tema dell’agricoltura biologica. Si è parlato di case, di vocazioni, di debiti, di redditi, di cani, di figli e figlie… tralasciando i pesticidi e il rame, gli oligoelementi e i residui di metalli pesanti. Ci è sembrata un’indicazione importante: quando si parla di agricoltura, e forse ancor più di viticoltura, la prospettiva non può fermarsi alla trattazione agronomica né alle soluzioni tecniche. La gestione del vigneto è anche conoscenza e considerazione per il territorio in cui esso si trova, e in questo senso ci piace fingere di contraddire Giovanna Morganti. Al centro dell’agricoltura futura dovrebbe stare proprio il terroir, a patto che si utilizzi questo termine alla francese. Comprende il suolo e il sottosuolo, il clima e il microclima, ma anche molti fattori umani che nella storia di una zona hanno concorso a determinare la fisionomia di un prodotto agricolo o artigianale. Oggi a questa visione va aggiunto l’influsso di fattori esterni: il terroir è succube di logiche e dinamiche socio-economiche che lo trascendono ma che influiscono su di esso. Sono fattori di natura sempre più ampia e incontrollabile. Perciò la biologia in sé pare anche a noi un concetto superato, o insufficiente. Se non si agisce sulle vigenti logiche di mercato, ci si limita a fornire all’industria agroalimentare una materia prima meno inquinata senza influire sul rapporto tra chi coltiva la terra, chi lavora i suoi prodotti e chi li consuma. Ecco dunque come il mondo bio sta definendo il proprio ruolo. Al suo interno convivono due applicazioni che vanno distanziandosi: A) la produzione su ampia scala di alimenti salubri e relativamente economici (come quelli della grande distribuzione), che sono un progresso apprezzabile ma sono privi di una forte aspirazione qualitativa; B) la produzione di alimenti che oltre ad essere sani sono probabilmente più attivi sul piano nutritivo ed energetico, hanno un legame organolettico con il luogo d’origine, la storia, le tradizioni locali e la persona che li produce. Sono quindi segnati da una matrice artigianale. Questa seconda categoria è l’unica a poter vantare una reale vocazione qualitativa. Il vino che amiamo e che speriamo di raccontare ancora a lungo appartiene a questa categoria, in cui l’agricoltura biologica può avere un ruolo, ma non è sufficiente. Forse non tutta l’agricoltura può permettersi di seguire una metodologia artigianale –anche se sovrapproduzione e sovralimentazione dei Paesi ricchi suscitano dubbi in tal senso– ma quando si applicano le logiche industriali a un’agricoltura senza veleni si svuota il termine bio di parte della sua connotazione originaria e si comincia a trasformarlo in un vocabolo di marketing. Questo fenomeno ci induce a riflettere, com’è successo ad Alessandria, sul fatto che il termine bio non basta a riassumere l’ambizione di un alimento a custodire e protrarre la propria vocazione edonistica e culturale.

Nota 1: E’ interessante notare che il dizionario della lingua francese Le petit Robert, alla voce terroir riporta una duplice accezione: “1. Estensione limitata di terra considerata dal punto vista delle sue attitudini agricole. […] Suolo atto alla coltura del vino. […] 2. Fig. Regione rurale, provinciale, di cui si consideri l’influenza sui suoi abitanti.”