Dialogo tra due enofili impenitenti

È almeno nell’arte che si cerca di raggiungere la
           perfezione, visto che è così difficile nella vita.
   Woody Allen

ATTO III 
         
Carmelo – «Cosa deve trasmettere un vino a chi lo beve? Emozioni. Io so perfettamente che il vino non è un’opera d’arte. Ma in qualche modo alcune grandi bottiglie, grazie alla natura, si avvicinano all’arte: allora occorre lasciare che ognuno, degustando un calice di vino, provi le sensazioni che potrebbe sentire osservando un bel quadro». Così si esprimeva un ben noto produttore delle Langhe, in un’intervista rilasciata una decina di anni fa a un cronista dell’AIS.
Sandro – E sai qual è l’errore? Quello di farne una questione gerarchica. Il vino è una forma d’arte a prescindere da un’impostazione di questo tipo.
C – Hugh Johnson, senza mezzi termini, definisce appunto il vino “una forma d’arte che conta seguaci in quasi tutti i paesi”.
S – Ed è proprio così. L’errore addebitabile a quel produttore è quello di pensare che i vini premium (quelli che produce lui) sono una forma d’arte perché, evidentemente, sono paragonabili al quadro famoso, mentre magari un Prosecco di Valdobbiadene sur lie di un produttore sconosciuto non è una forma d’arte perché è da considerarsi possibilmente un vino sfigato. No, non è così. Il vino è una forma d’arte proprio perché alla base di ogni vino buono, che sia Barolo, Cirò o Prosecco, c’è sicuramente un elemento artistico che è costituito da quella “imprevedibilità” legata al territorio di origine, che è anche l’origine del suo mito. La Natura non si è di certo messa d’accordo con qualcuno per stabilire, in qualche modo, quali sono i luoghi in cui c’è una particolare vocazione.
C – Insomma, vuoi dire che la forma d’arte non è nella finitura, come magari pensava quel produttore…
S – Esatto. Produttore che, nella fattispecie, ha la fortuna di operare nelle Langhe come terza generazione di una famiglia di vignaioli, e gli viene dunque facile parlare in questi termini. Ribadisco: la forma d’arte è di base, ed è proprio per questo che a volte il produttore ha una responsabilità molto più elevata di quella meramente artistica.
C – In che senso?
S – Nel senso che se disperde questo patrimonio artistico potenzialmente presente in qualunque vino, e da cui dipende l’importante fattore “imprevedibilità”, fa un danno incommensurabile.
C – Concordo su quanto dicevi circa la presunta gerarchia dei vini: è un concetto non condivisibile e che non tiene conto del fatto che ogni vino, qualunque vino, ha una sua propria dignità. Inoltre ho sempre considerato la tendenza a blasonare i vini un errore storico. Una delle cause di quell’alone di esclusività, di ritualità e ridondante mitizzazione che ancora oggi si avverte intorno alla bottiglia e che è alla base della diffusa soggezione avvertita dagli utenti che non hanno (ancora) dimestichezza con il liquido odoroso.
S – In linea di massima potrei anche essere d’accordo con quanto affermi, però vorrei anche aggiungere che questa tendenza a blasonare è stata per certi versi inevitabile, nel senso che l’intenzione iniziale era quella di proteggere i vini di maggior valore. Basta ricordare, tanto per fare un esempio, quello che è successo nella zona delle Langhe quando il mondo, improvvisamente, si è innamorato dei vini bianchi. Salvo rarissimi casi, il prezzo dei vini Barolo e Barbaresco era sceso a livelli imbarazzanti, ampiamente al di sotto di quella che era una logica naturale. Un vino come il Gavi di Gavi, che allora andava molto di moda, costava più del Barolo ed era un vino che veniva messo in commercio al massimo dopo un anno dalla vendemmia. È facile comprendere come il problema principale spesso è dato dalla deriva di certi comportamenti.
C – Certamente. E non si può dire che oggi le cose siano cambiate. Il mondo del vino continua a essere investito da impulsi modaioli che creano più danni che benefici al settore. Basti pensare, per esempio, all’area dell’Etna, sulla quale negli ultimi tempi si stanno lanciando molti produttori anche non siciliani.
S – È vero. Ma c’è da rilevare un aspetto fondamentale. La persona che si dedica al vino ha oggi la possibilità di scegliere come informarsi. Non è come al tempo di Veronelli, in cui la tv non aveva ancora fatto la sua strada e chi voleva leggere le recensioni del grande enogastronomo doveva cercarle con il lanternino. Adesso non è più così. Oggi chi vuole informarsi ha davvero tante possibilità, grazie anche al web.
C – Arte è ciò che viene fuori da tutto ciò che ha in sé una scintilla di rivelazione. Una forma d’arte costituisce un microcosmo fatto di cose che colpiscono l’intelletto, che lasciano il segno, e costituiscono quasi sempre l’espressione immortale di un’essenza superiore. L’artista, in genere, è sempre un essere al di sopra della mischia, fuori dalle normali convenzioni del mondo civile. La sua espressione artistica è il suo linguaggio. Il suo modo di comunicare con il mondo. Ma l’artista è sempre uno. E anche se opera in un ensemble, non perde in ogni caso la sua individualità. Originalità. Nella forma d’arte che stiamo considerando ci sono invece due attori: l’Uomo e la Natura. Il vino potrebbe dunque definirsi come espressione dell’arte di assecondare la Natura messa in atto dall’Uomo?
S – Vuoi dire: quanto ci ha messo la Natura e quanto ci ha messo l’Uomo?
C – Esattamente. In tal senso, potremmo considerare il vino un’opera d’arte davvero unica, poiché espressione di due artisti, affini e al tempo stesso potenzialmente contrastanti. Mi riferisco alle motivazioni che possono spingere un produttore, per esempio, a correggere i vini, a mettere in campo delle manipolazioni tese al raggiungimento di determinati fini utilitaristici, giungendo poi a un risultato che è più omologazione piuttosto che esaltazione di una Natura intrinsecamente presente nella materia prima di partenza.
S – Un produttore di tipo industriale finirà per snaturare, per togliere l’anima al vino realizzato proprio perché spinto da obiettivi ben precisi. Ci tengo a sottolineare che, in questo senso, il fattore “quantità” gioca un ruolo determinante, ma solo fino ad un certo punto.
C – E cioè?
S – Nel senso che un produttore che fa diecimila bottiglie all’anno, sempre uguali, apportando le dovute maipolazioni, lo considererò comunque un produttore industriale. In fondo quello che hai sollevato è, almeno in parte, un falso problema. Se il vino esiste è grazie all’uomo. Poi è una questione di ingerenze e sinergie. Il punto è: un vino di qualità, un vino buono, di quanto uomo ha bisogno?