Chianti, armonia e invenzione

note di degustazione di sandro sangiorgi
foto di giacomo lippi

Non è possibile analizzare il Chianti in quanto comparto agricolo senza considerare il contesto della Toscana nella sua complessità. E questo non solo perché nell’intenzione dei legislatori degli ultimi sessant’anni c’è stata la volontà precisa di fare di quest’ultima un’area vitivinicola d’eccellenza e del Chianti (e delle sue sottozone) la denominazione regionale per antonomasia, con buona pace di Mario Soldati che nel 1969 denunciò i pericoli insiti in questo viatico. Ma anche, e soprattutto, perché la storia del vino nella terra del Boccaccio e del Machiavelli – di cui quest’anno ricorrono alcuni anniversari – è storia recentissima e con la s minuscola, fatta di osmosi fra tendenze e accadimenti apparentemente separati e susseguitisi in luoghi a volte distanti l’uno dall’altro (il Chianti appunto, la costa livornese “degli Etruschi”, Montalcino, Montepulciano, la Maremma grossetana) ma alla lunga strettamente interconnessi.
Ci si riferisce qui soprattutto all’invenzione negli ultimi quarant’anni dei cosiddetti vini “moderni”, prodotti come Vini Da Tavola prima e a Indicazione Geografica Tipica “Toscana” poi. Quei “Superstuscans” il cui fenomeno generalizzato ha contribuito a un successo mediatico e commerciale toscano massificante, in cui la realtà locale ha lasciato il passo allo strapotere del brand. Tant’è che sotto questa spinta, che tanto “ha giovato” allo sviluppo vitivinicolo toscano, anche l’annosa disputa tra Chianti Storico e Chianti Geografico – oggi per altro del tutto rientrata, ma che un certo valore lo aveva pur avuto negli anni venti del Novecento – appare poco più che un retaggio folkloristico del proverbiale campanilismo toscano.
Riassumendo per sommi capi, di fatto questi vini sono stati realizzati in tre tipologie:

– sangiovese in taglio con uve alloctone (cabernet sauvignon, merlot e syrah su tutte);
– uve alloctone in purezza;
– sangiovese in purezza.

Esistono poi varie eccezioni di “supertuscans” ottenuti da tagli “tradizionali”, per esempio di sangiovese e colorino; essi tuttavia:

– costituiscono una minoranza quasi trascurabile;
– sono vini “nuovi”, nati alla fine degli anni novanta e ininfluenti sul piano storico se paragonati agli apripista degli anni settanta e ottanta;
– non sono al di sopra di ogni sospetto quanto all’uso di vitigni internazionali.

Sorvolando sull’impatto che questi vini d’invenzione hanno avuto anche sulle denominazioni storiche, quello che si evince da questa superficiale elencazione è che una larga parte dei vini moderni è costituita dal sangiovese vinificato in purezza, a ribadire come la storia del vino chiantigiano e toscano (ma anche quella più recente di Montalcino) sia stata caratterizzata fino a un recente passato da un’estrema ricchezza varietale – canaiolo, colorino, trebbiano, malvasia bianca, san colombano, ciliegiolo, foglia tonda, pugnitello, malvasia nera, spesso vinificate in masse uniche col sangiovese –; e come il sangiovese purosangue non sia altro che un figlio “legittimato” di una tradizione recente e posticcia quanto quelle tutte eno-giornalistiche del Chianti-shire, della “compatibilità” fra la climatologia toscana e il merlot oppure della complementarietà fra la dolcezza di quest’ultimo e l’austero sangiovese.

La chiesa di Santa Maria delle Grazie altrimenti nota come Cappella delle croci a Panzano in Chianti