Chianti, armonia e invenzione

Nello specifico, tornando al Chianti, l’oggetto di analisi appare sfuggente, ogni acquisizione su di esso provvisoria, a volte addirittura instabile, quasi sempre fuori fuoco.
Più che risposte a domande precise, ogni indagine ci restituisce una serie di dati polverizzati, una disorganizzazione da cui scaturiscono inevitabilmente nuovi e vecchi quesiti, dai quali ne gemmano ancora altri in un ciclo apparentemente inesauribile.
Ecco una delle possibili concatenazioni:
Dov’è il Chianti?
È una regione a sé stante nel cuore della Toscana, come molti scrivono e divulgano? Se sì, quali sono i suoi confini? Chi sono i suoi abitanti?
Oppure è una tendenza, non solo vitivinicola ma culturale?
Venendo al vino, esiste una tradizione vitivinicola storicamente accertata – e non soltanto data per scontata – che legittimi una produzione su così larga scala che non sia giustificata dal solo mercato?
In questo senso poi, esiste sul piano nazionale e internazionale un rapporto tra la domanda e l’offerta del prodotto chiantigiano e poi toscano e poi italiano, non paragonabile, ad esempio, a quello che regola la situazione francese, ma almeno serio, con implicazioni meno estemporanee e in grado di stabilizzare un comparto vitivinicolo storico? In sintesi: esiste un mercato meno virtuale di quello che sta determinando le alterne fortune del prodotto toscano e italiano?
È possibile in un ambito di tale vastità produttiva ipotizzare una zonazione?
Esiste poi una netta differenziazione di stili di vinificazione, basata su giudizi meno impressionistici e anodini di quella proposta da produttori, commentatori e critici che sancisca nei fatti un dualismo produttivo tradizione-modernità, sulla falsa riga di quanto avvenuto nel recente passato in altre importanti aree viticole come la Borgogna o la Langa? Oppure il paragone più calzante resta quello col Medoc, classé o bourgeois che dir si voglia, il quale di fatto replica anche nella sua struttura “a chateau”, il nostro sistema “a castello/castellare/villa” di aziende di dimensioni variabili, costituite da un corpo centrale con vigneti specializzati (e uliveti) tutti attorno?
Se questo presupposto è vero, poste tutte le differenze del caso – non ultima la diversa densità produttiva dei due comparti – è ipotizzabile, per estensione, che le problematiche della Gironda (dominio assoluto e generalizzato dei winemakers, “napalizzazione” dello stile, impatto ambientale, inflazione etc.) possano applicarsi anche alla toscana chiantigiana?

La coltura promiscua nel Chianti: a un filare, 40-50 fa, era solito affiancare uno di ulivi seguito dal grano e dagli ortaggi