Chianti, armonia e invenzione

Oppure, nella migliore delle ipotesi, che esse facciano da cassa di risonanza alle contraddizioni di un territorio scisso e incerto fra documenti storici incontestabili e un’attualità caratterizzata da un internazionalismo turistico-mercantile spinto agli eccessi?
Può essere che la spaccatura – se c’è – fra Storia toscana (questa volta con la esse maiuscola) e paesaggio contemporaneo, quest’ultimo per lo più subordinato all’intervento di un’antropologia “foresta”, abbia determinato un’irreversibile perdita di identità?
E ancora, è proprio possibile che ciò si sia verificato soltanto a causa di pressioni esterne?
Esistono delle responsabilità in questo smarrimento identitario – che, è bene ricordarlo, ha lasciato sul campo non poche vittime, su tutte le tradizionali uve toscane a bacca bianca – di ambito affatto legislativo, nella scoperta di una flessibilità ampelografica applicata laddove perdurano restrizioni disciplinate?
Esistono poi delle corresponsabilità da parte di molta stampa che, con eccesso di zelo e di valori in campo, ha definito Rinascimento del vino toscano quell’impulso verso modelli bordolesi e, soprattutto, californiani degli anni settanta e ottanta?
Oppure, ribaltando la questione, esiste qualcosa di culturale, di ontogenetico, di meta-storico in questa perdita di identità che pare stabilita a tavolino?
È davvero il sangiovese il principe, oggi come ieri, di questa denominazione?
Se sì, lo è sempre stato oppure è il protagonista involontario di un’ennesima “invenzione della tradizione”?
E in conclusione, che cos’è il Chianti?
Percorrendo gli assi viari che attraversano questa presunta regione e che seguono praticamente gli stessi tracciati sin dai tempi degli Etruschi – e forse anche dagli albori dell’Età del Bronzo – scopriamo un territorio di grande bellezza dove vigneti, uliveti, borghi, castelli e boschi si alternano, restituendoci sensazioni di ideale armonia paesaggistica con un impianto iconografico rinascimentale, in cui si alternano “posti” anti-bergmaniani[1] , sfondi e dettagli che sembrano provenire direttamente da tre secoli di pittura toscana, in una sintesi fra natura e cultura (e coltura) tale da suggerire una ricomposizione tutta romantica della frattura fra kaos e kosmos, ovvero fra impressione sensibile naturale e ordine e comprensione razionale.Ma è davvero così? Oppure dietro alle apparenze di serenità agreste si cela una grande simulazione?E se dietro agli elementi compositivi – il vigneto, l’uliveto, il cipresso, la quercia, la pieve romanica, il borgo “caratteristico”, il castello medievale quasi sempre del XVI secolo se non addirittura neo-gotico – che di più connotano l’oleografia di questi luoghi, sempre meno luoghi ma che sempre più trascendono in “spazio unitario”, spersonalizzante e spersonalizzato ma immediatamente riconoscibile come Toscana; se dietro a questo paesaggio/codice si celasse il vuoto semiotico di un referente talmente simbolizzato da essere muto, di un significante ormai svuotato di significato storico?
E se così fosse, è possibile che l’attuale crisi (economica, finanziaria, valoriale, qualitativa, identitaria, territoriale ecc.) del vino prodotto in Chianti non sia altro che l’epifenomeno di una crisi storica che questo territorio reca seco almeno dai tempi del voyage en Italie settecentesco?
Forse i fauni di Schiller sono stati davvero scacciati dal bosco, o peggio: sono diventati contadini, poi servi, poi se ne sono andati lasciando un vuoto che è stato riempito dopo vent’anni da “forestieri” d’ogni provenienza.
Ma – sia detto per inciso – in Toscana anche il vicino di casa è un “forestiero”.

Scritta su una parete della chiesa di Santa Maria delle Grazie a Panzano in Chianti

 


[1] Mi accorgo dell’oscurità dell’espressione e provo a spiegarla in questa nota.
Il mio riferimento cinematografico va chiaramente a Il posto delle fragole del regista svedese Ingmar Bergman. Il posto nel celebre film, rappresenta un luogo di memoria vivente, attualizzabile lungo le coordinate del desiderio e della nostalgia, dove si mescolano tempo, spazio e sogno. Esattamente il contrario di quello che accade nel paesaggio chiantigiano, in cui la codificazione delle icone domina e spersonalizza lo spazio cancellandone la portata “storica”. Anche laddove si palesa il rudere, ad esempio, di Montegrossi – o Montegrossoli che dir si voglia – il valore del castello diruto in realtà rientra in quella semiotica del “paesaggio di rovina” descritto da Walter Benjamin, in cui Storia e Natura si incontrano, ma nell’ottica di una riappropriazione di quest’ultima sulla prima, in pratica la fagogitazione delle vicende di un luogo a favore della forza dell’immagine (apparentemente) naturale che – come nota Susan Sontag nel suo Sulla fotografia. Realtà e immagine nella nostra società – resta muta di fronte a noi a meno di una didascalia a commento. Ma la didascalia della fotografia del paesaggio chiantigiano è la nostra esperienza edonistico-commerciale di turisti (non viaggiatori) che negli ultimi trent’anni hanno invaso questi posti e vi hanno trovato la conferma di un sogno iconico collettivo, condiviso e preconfezionato, e quindi senza memoria e senza nostalgia.