“Laddove mancano i nomi e le canzoni per raccontarli, manca la vita”

Una voce di donna mi risponde al telefono: «Il signor Maga è uscito. Se mi lascia il suo numero la faccio richiamare». Poco dopo mezzogiorno squilla il mio cellulare. Sento una voce pacata, all’interno della quale c’è un po’ di rassegnazione. «Posso passare da lei per assaggiare il suo vino, fare due chiacchere e vedere la cantina e i vigneti?», chiedo. Il signor Maga mi risponde semplicemente con un sì e un arrivederci.
Alle 5:50 il cielo è ancora in attesa di schiarita, il treno per Broni mi attende alla stazione di Rovato e mentre pedalo per le strade quasi deserte riempio il tempo e l’immaginario di pensieri che cercano una loro personale verità e una concretezza per ciò che ancora è sconosciuto. Avverto l’assurdità del gioco ma anche, parallelo, il compiersi di un viaggio, di un’energia vissuta che fa cadere uno ad uno gli impedimenti che si costruiscono con maggiore o minore grandezza a seconda della leggerezza di come affrontiamo le cose.
È questo che dona forma concreta al pensiero e all’idea.
La pioggia inizia a scendere piccola quando scendo a Broni. Nella piazza c’è il mercato e in piedi, fuori dai bar, anziani che fumano. Cammino guardando le case, le persone e i nomi, ascoltando le cadenze delle voci lombarde ed emiliane allo stesso tempo.
Sono le 9:30 quando mi fermo di fronte all’insegna “Az. Agr. Barbacarlo”.
Il portone accanto alla vetrina è aperto e osservo un ragazzo caricare di materiale di scarto un motocarro. Accanto a lui un signore sugli ottanta, con una coppola e un maglione grigio, una sigaretta tra le labbra.
«Sono Davide, ci siamo sentiti mercoledì». Lui mi guarda mi stringe la mano e mi dice: «Allora?».
Restiamo per cinque minuti in piedi nel cortile interno a guardare il motocarro e il ragazzo che lo sta ancora caricando, forse in maniera eccessiva. Seguiamo la sua faticosa ripartenza e l’uscita adagio in retromarcia.
«Entriamo?», Lino si è girato e si sta avviando verso una porta di legno, io lo seguo.
Un piccolo spazio riempito da un paio di armadietti di alluminio, una scrivania e anni di tempo, fotografie, parole scritte su piccoli fogli bianchi appesi alle pareti, articoli di giornale e polvere.
Varchiamo un’altra soglia entrando nel salone che si vedeva dalla vetrina. Ovunque bottiglie di vino custodi del tempio, del fuoco della casa, un tavolo, delle sedie.

Ci sediamo.
«Lo sai che non ho più patente, carta d’identità e tesserino medico?».
Lo guardo perplesso e non so che rispondere, perché non so, e allora continuo a guardarlo restando in attesa che riprenda a parlare.
Così mi racconta del sequestro di cui è stato vittima pochi giorni prima e di cui io sono all’oscuro.
«Mi hanno tenuto un coltello alla gola, ecco come quello» e mi indica il coltello con cui ha tagliato per me alcune fette di salame e del pane, «sono stato per due giorni in pigiama, non potevo entrare in casa».
Pausa, si alza, «Vuoi assaggiare qualcosa?» e prende una bottiglia di Barbacarlo del 2010 versandola in due bicchieri. «Salute!».
Bevo il mio primo sorso di Barbacarlo, una vivace succosità aspra e da mangiare.
«È la terra che fa la differenza». «Non mi sono ancora ripreso».
E penso a come il trauma colpisca a 82 anni chi ha dedicato l’intera vita alla propria terra.
Continuo a guardarmi attorno nello stupore e nell’ignoranza e quello che vedo sono bottiglie, parole e fotografie in un silenzio religioso.
«Fate quello che volete, gli ho detto. Mi hanno risparmiato perché sono stato servo dei servitori. Povera gente, paghiamo sempre la sofferenza…».
Poi prende un’altra bottiglia, 2009, e me ne versa un poco nel bicchiere.
Silenzio.