Pollenzo

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M: Sandro, per noi le tue opinioni su questo argomento sono preziose. Nel discorso di Nicola sono saltati fuori dei quesiti che io mi sono posto più banalmente per scrivere la presentazione di oggi; ho evitato di usare la parola “critica” perché possiamo intenderla sia con un significato di largo respiro, ma anche com’è stata intesa per troppo tempo, e rimanda a quel tipo di approccio con cui tu non sei allineato, e neanche noi.
Oltre alle suggestioni che ti suscitano le parole di Nicola, che cosa ti è rimasto di quel tempo, a quali vini sei affezionato in termini di categorie, quale percorso avevi già scoperto e hai continuato a seguire?

S: La cosa più importante che è rimasta è il mio sogno di fare il maestro. Ho sempre sognato di farlo e sono una persona privilegiata perché lo faccio. Poi il vino è un mezzo straordinario, bisogna amarlo. Il vino ha, nei confronti delle persone, una capacità di viaggio, di conoscenza di sé che è molto difficile trovare in altri soggetti.
Una delle cose più importanti che sono successe negli anni novanta, di cui ha parlato anche Nicola, è stata l’imporsi del modernismo. Il cambiamento di approccio è iniziato quando ho recuperato il senso storico: a un certo punto mi sono accorto che ci stavamo perdendo un sacco di pezzi e anche nel modo di insegnare non riuscivo più a percorrere quella strada che alla fine era un binario morto; infatti mi ricordo il periodo in cui si faceva a gara a chi beveva per primo il vino più costoso, le annate più celebrate… mi sono reso conto che questo non c’entrava col vino e non c’entrava con l’educazione. Di quel periodo mi porto dietro l’amicizia di molte persone e mi porto dietro il dolore che porta ogni cambiamento d’idea, perché è stato un percorso doloroso – anche perché molte persone alle quali ero legato non l’hanno presa bene la scelta di guardare altrove. Devo ammettere che non ho nostalgia di quel periodo, perché mi ricordo che non riuscivamo a vedere niente più di quello che avevamo davanti agli occhi; come Nicola ha opportunamente ricordato, si diceva: «Non si sono mai bevuti vini buoni come ora» e questa è una cosa alla quale ho creduto per alcuni anni e poi, a un certo punto, in alcune occasioni, mi sono accorto che qualcosa non tornava durante le degustazioni alla cieca, mentre dialogavo con qualcuno. Ovviamente mi sono confrontato subito con le persone con cui lavoravo, poi sono finito in una stretta minoranza ed è stato inevitabile mollare. Il cambiamento è stato bellissimo perché ho cominciato a vedere il vino attraverso valori diversi; ho raccontato alle persone che non c’era un odore, non c’era un colore, non c’era un sapore o un gusto migliore che poteva essere usato per costruire una gerarchia credibile. Il vino era un intero e quindi andava amato così; il frizzante, il dolce, il rosato sono soltanto sue manifestazioni. Non aveva più senso pensare a qual è il vino che ti piace di più, «bevo solo vini bianchi», «non sopporto i rosati» e così via… L’idea fondamentale è partire da valori diversi. Prima di tutto l’imprevedibilità: un vino buono non può non trasformarsi nel bicchiere, non può non trasformarsi con noi mentre lo cominciamo a sentire e ogni volta che ci torniamo col naso e con la bocca può nasconderci qualcosa; è come una specie di caleidoscopio che cela sempre un pezzo, quando crediamo di averne capito uno, ce n’è un altro a noi ancora misterioso… e intanto la prima bottiglia è finita e probabilmente la successiva avrà ancora tante altre cose da mostrare. Poi il vino – quello buono –  doveva recuperare e sta recuperando la funzione di donare benessere. Non solo più digeribilità, non solo l’eliminazione della solforosa. Il senso di donare benessere ha a che fare con il nutrimento spirituale e morale del vino e quindi, arricchendomi, il giorno dopo mi fa stare bene, devo avere qualcosa in più dall’esperienza che il vino mi ha donato. Questi due elementi – l’imprevedibilità e la capacità di donare benessere – aiutano il cambiamento di prospettiva; l’elemento più importante del vino è il luogo in cui si fa e i luoghi in cui si può fare il vino buono sono una stretta minoranza; se il vino porta con sé quello che gli ha lasciato il luogo, allora è un vino imprevedibile e capace di donare benessere, memoria… un vero e proprio interesse.

M: Prima di chiedere a Nicola se e cosa gli suggeriscono queste categorie – soprattutto rispetto a tensioni che ci sono oggi nel modo di raccontare il vino – ti volevo chiedere una cosa rispetto a quello che ci hai appena detto, perché secondo me è importante: negli anni del modernismo non esisteva solo una visione deformata e settoriale… c’era anche una vasta possibilità di imparare. Oggi credo siano pochi i produttori di vino che vanno a un corso di degustazione, e non perché non ce ne sia bisogno. Mi sto chiedendo se quel modernismo non fosse solamente un modo per costruire un’identità…

S: Se parliamo delle Langhe e quindi Barolo, Barbaresco, e poi dell’Astigiano, territori che ho vissuto interamente perché ci ho abitato, oggi ho il cuore spezzato… È proprio come l’hai presentata: in un dato momento una generazione aveva visto, negli occhi dei genitori, una sconfitta. Quindi, come hai detto bene, c’è stata proprio la reazione di una generazione che per slancio, con un’ingenuità senza secondi fini, ha creduto che non bastasse un cambiamento di prospettiva, bisognava proprio tranciare il legame che c’era con la vecchia generazione. Per il vino italiano gli ultimi cinquant’anni sono una ferita e i vini buoni di oggi stanno provando a sanarla. Una delle prime cose che ho fatto quando è cominciata Porthos è stata iniziare a parlare della storia, quindi recuperarla, non distruggerla del tutto o rinnegarla.