
01 Ago Pollenzo
N: Vorrei dire molte cose… cercherò di dirne soltanto alcune collegate all’intervento di Sandro. Naturalmente io non ho vissuto su questo territorio, anche se lo frequento da molti anni per lavoro. Che gusto dovrei trovare nel vino? Mi sembra l’atteggiamento di qualcuno che deve trovare un approccio, che considera il sapere una trasmissione di dati preconfezionata: io devo riconoscere ciò che già so. L’idea del buon gusto per molto tempo, nella gastronomia e nell’enogastronomia, ha significato insegnare agli altri cos’è il buono, quindi partire da parametri e da standard prestabiliti: questo non è naturale. Ora butto lì una cosa un po’ polemica: quando si dice “questo vino ha la volatile alta” e quindi è difettato… Alta rispetto a cosa? Alti e bassi sono concetti relativi. È vero che il vino è un intero, un tutt’uno come Sandro ha detto, ma forse noi chiamiamo vino molte cose diverse. Quindi il vino in sé è un’entità che si sfaccetta in migliaia di esemplari. Come si può pensare che possa essere la stessa cosa uno prodotto in dieci milioni di bottiglie o un vino prodotto in diecimila bottiglie. Ci sono scale differenti: ognuno incontra il suo vino, ognuno si approccia al vino nella maniera più confacente, ce n’è per tutti. Anche per me, i vini che amavo venticinque anni fa non sono gli stessi che amo ora perché sono cambiato io. Quindi fare i concorsi e le classifiche non m’interessa più, mi fido di un approccio che propone il vino come un incontro. Stabilire la gerarchia delle annate non ha più tanto senso; il gusto non è un senso, ma un compito. Quando stabilisci i tuoi parametri di gusto, decidi come vuoi muoverti preventivamente nell’ambito del mondo nella sua totalità. In realtà c’è imprevedibilità non solo nel fare il vino, ma anche nell’apprezzarlo. Non ci sono rigidi metodi di degustazione.
M: Questo come si lega con l’essere maestro? Perché se si porta il discorso solo su di me, qui e ora, con quel vino, il maestro che ci sta a fare? Rispetto all’idea che abbiamo di cultura, quella di insegnare un approccio proprio per lasciare libero il soggetto, credo sia rischiosa… Forse era più facile fare i corsi con i concetti degli anni novanta – a parte la difficoltà di coscienza quando questa identità ha iniziato a risultare troppo stretta – perché la vecchia modalità d’insegnamento poteva dare più soddisfazione agli alunni meno coraggiosi. Sei riuscito a mettere a punto l’idea di maestro 2.0?
S: Io dico spesso che mi occupo di persone, non direttamente di vino. Questa è la prima cosa fondamentale. Anno dopo anno m’interessa sempre più ciò che succede alle persone che vengono ai miei corsi, ai seminari, alle serate. Che ci sta a fare il maestro? Io mi accorgo che le persone hanno bisogno di punti di riferimento, cercano degli appoggi. Con il vino spesso appare un vuoto e allora si cerca insieme di stabilire delle certezze… Aiuto le persone a reggersi in questo vuoto senza bisogno di punti di riferimento che non siano i propri. Quindi, per esempio, non dico a una persona quello che deve sentire nel vino: quello che la persona sente, c’è. Quando si degusta insieme, la parte principale è proprio il tempo che dedichiamo all’assaggio, a quei calici, il tempo che il vino impiega per donarsi. Nicola ha detto che è un incontro. È bellissimo. Nel libro “Il Vino Capovolto”, che è una combinazione tra la degustazione geosensoriale di Jackie Rigaux e alcuni miei scritti, parlo di questo incontro, che può durare qualche secondo o pochi minuti. Che senso ha, ad esempio, consigliare di comprare un libro di poesie che non parlano di vino? E invece è proprio grazie a questi esercizi di estetica che si aiuta a comprendere il vino. Poi, le persone, devono rendersi conto che l’istinto non è epidermide e basta. L’istinto, ovvero quello che ti viene in mente subito quando metti il naso in un calice – soprattutto quando metti il vino in bocca – è qualcosa di fondamentale.
Sono stato educato per un bel po’ e ho educato a concentrarmi sul vino, pensando che bisognasse estrarre qualche cosa. Invece, ho scoperto, che far entrare il vino attraverso accessi a cui non siamo abituati, è il segreto della sua comprensione; non si diventa degustatori obiettivi, si può diventare degustatori credibili con i quali confrontarsi. La libertà di associazione ha un potere straordinario e non bisogna rinunciarci; ecco perché dico ai miei alunni: «non forzatevi ad avere punti di riferimento, non servono. Dovete solo imparare a sentire, che è una disciplina che si coltiva non solo quando si assaggia il vino». Ecco perché penso di servire ancora come maestro, perché provo a insegnare a sentire. Ci sono dei casi in cui le persone sono già preparate da altri corsi, diplomati dell’AIS ad esempio, e lì è necessario impegnarsi, bisogna raschiare il barile di qualcosa che ormai è entrato dentro. E poi c’è chi, invece, non ha avuto nessuna esperienza. Il mio compito è quello di prendere per mano entrambi e costruire una classe – una delle cose più emozionanti che si possono vivere, per questo io lavoro con gruppi piccoli – e quindi, piano piano, iniziano a scoprire che in realtà il vino è un bellissimo mezzo, ma non è il fine. Il fine di tutto questo lavoro siamo noi. La nostra capacità di essere migliori.
N: Ci sono due significati di educare. Significa, dal latino, “instillare” conoscenze, portare qualcosa nella mente di qualcuno; il secondo significato è dall’etimologia “ex ducere” cioè portare fuori, quindi il movimento opposto. In questo secondo senso l’educazione ha a che fare con l’incontro. E allora il maestro è colui che insegna a imparare. Qualcuno che avvia a una sensibilizzazione progressiva, come apertura al mondo. Il vino, come dice Sandro, è un mezzo potentissimo. Nei suoi ottomila anni di vita è diventato la più importante bevanda dell’umanità e non solo per le sue qualità sensoriali, ma per il suo potere connettivo, conviviale e relazionale. Porta un piacere che è connesso con l’alterazione della coscienza. C’è un punto, nel “Simposio”, dove Platone dice che c’è una soglia per arrivare al punto in cui in vino veritas, è il punto in cui la mente si apre e la coscienza si espone e viene fuori la verità relazionale del momento. Ci sono centinaia di libri, di poesie, testi sacri e filosofici dove il vino è al centro della tavola, ma non perché protagonista del discorso. Tutto questo per dire che, per apprezzare il vino, non serve un linguaggio tecnico, anche il linguaggio diventa strumento. Come dice un detto zen: il maestro ti accompagna fino a metà strada, poi devi farcela da solo.