Spettri del vino

di Emanuele Tartuferi

«Io gli dissi: “È ora che rincasi; già vedo il rosso dell’aurora penetrare nella taverna”. “Che aurora!” rise egli, meravigliando; “qui non v’è altra aurora fuori del brillare del vino”. E andò, e turò l’otre; e tornò nella taverna l’oscura notte».

Ab Nuws, traduzione di Italo Pizzi

 

Ho dimenticato quasi tutto dell’infanzia ma ricordo bene quando la famiglia del mio compagno di scuola Lorenzo mi invitò a cena a casa e a sei anni provai un goccio di vino. Qualsiasi cosa fosse, quel liquido era di una potenza mai sentita: nelle risate, nei piacevoli giramenti di testa di quella sera il mondo si mostrava in una forma completamente diversa e per la prima volta ne avevo consapevolezza. Può sembrare una provocazione considerare un’innocente sbornia come momento di formazione, ma ancora oggi ricerco nel vino quella scintilla, la scoperta di uno sguardo diverso sulle cose che apre a una visione mai statica, mai consolatoria del mondo. Se è vero quello che scrive Laurent De Sutter nel recente L’arte dell’ebbrezza1, e cioè che «è nel vino che si trova la verità, e da nessun’altra parte», è proprio perché bere non conduce a una rivelazione assoluta né alla scoperta di un ipotetico vero sé interiore, quanto all’incontro con un esterno che non cessa mai di modificarsi e modificarci. 

La scrittura del vino negli ultimi anni invece di aprirsi a questa potenza debordante ha cercato in tutti i modi di contenerla: nelle schede di degustazione, nelle classifiche e nel linguaggio del marketing, nella ricerca di una narrazione che potesse in qualche modo mettere dei confini rassicuranti al “mondo del vino”. Non è un caso che è difficile, se non impossibile, trovare racconti recenti di fantasia che parlano di vino, il cui potenziale immaginario è oramai ridotto alle note più ispirate e poetiche di degustazione o alle testimonianze evocative delle storie dei vignaioli e dei terroir. L’obiettivo però è sempre quello di restituire il “reale”, di essere fedeli a un racconto che deve svelare qualcosa di “vero” e “autentico”. Diceva Borges in una delle sue ultime interviste che «il realismo è un episodio, solo un momento della storia della letteratura. La grande letteratura è sempre stata fantastica, non è mai stata realista»2. È possibile quindi ritrovare nel vino un mezzo straordinario di “re-incantamento” del mondo. Che il vino torni ad abitare le soglie tra il naturale e il soprannaturale, tra il sogno e la veglia, tra la vita e la morte come già nel più antico poema epico della storia dell’umanità: nell’epopea di Gilgamesh l’eroe incontra la dea Siduri, la fanciulla che fa il vino, proprio al confine tra il mondo dei vivi e quello dei morti. 

È in queste zone liminali che i fantasmi prendono vita, forze in apparenza irreali, come gli spiriti che popolano le scene di Hayao Miyazaki. I film del maestro di animazione si concentrano sui dettagli marginali che solamente lo sguardo curioso di un bambino può notare e si sviluppano senza una trama coerente e lineare. La scena del treno nella Città Incantata è una delle sequenze più avvolgenti e “immersive” della storia del cinema: le ombre che popolano i vagoni non sappiamo di chi sono, passeggeri fantasma di un treno che solca le acque di un mondo onirico. Eppure ci immedesimiamo negli occhi della piccola protagonista Chihiro, di una bambina che per la prima volta prende il treno da sola. Un’esperienza formativa in cui tutti, nei ricordi passati, ci possiamo ritrovare, resa senza alcuna vena nostalgica e ambientata in un mondo immaginario che, tempo fa, abbiamo realmente abitato. La scena non è funzionale alla trama della storia ma è qualcosa di talmente potente da costituire il cuore stesso del film. Quelle di Miyazaki sono opere artistiche di cui facciamo esperienza diretta, che ci passano attraverso e dalla cui visione usciamo profondamente cambiati, se sappiamo abbassare le difese di una presunta razionalità adulta. Il sovrannaturale nei film del regista giapponese è qualcosa di reale: «i realisti puri senza sogni sono i peggiori» ripete in un’intervista4. Gli spiriti del fiume, i kodama, i nerini della notte sono rappresentazioni di potenze invisibili ma non per questo inesistenti. Sono questi spettri, questi fantasmi che abitano anche i profondi labirinti del vino buono.

«Who are you? Why would you come to me?»5

La prima volta che ho bevuto il Montepulciano d’Abruzzo di Emidio Pepe, più di 10 anni fa, non ho pensato a quanto riuscisse a esprimere il terroir di origine né a compararlo ai tanti montepulciano che avevo già avuto modo di bere. La sua sfrontatezza era qualcosa di totalmente alieno a tutto ciò che avevo bevuto fino ad allora. Poteva benissimo essere un liquido venuto da un altro universo: d’altronde noi siamo sempre molto attaccati (giustamente) all’idea del vino come “poesia della terra” dimenticandoci però che la vite è una liana che tende verso il cielo e devota al sole, a un pianeta extraterrestre. Il vino è anche una bevanda cosmica e astrale. Se l’aspetto brutale di alcuni vini ricorda le figure del cinema di Ciprì e Maresco, qualcosa che scava in profondità nella miseria e nelle viscere che abitano ognuno di noi, al contrario l’energia di quel Montepulciano rappresentava l’incontro con un’entità che proveniva da un esterno sconosciuto ma tremendamente potente. Come nel racconto che fa Fisher della weird fiction di Lovecraft6, avere a che fare con un vino del genere è sperimentare l’attrazione per una “autentica esternalità” che non ha nulla di familiare e rassicurante, verso cui dobbiamo porci con la meraviglia che solo un incontro eccezionale può provocare. Siamo abituati a pensare all’alieno come alterità assoluta e allo stesso tempo lo idealizziamo a nostra immagine e somiglianza, come gli ominidi extraterrestri dei film di fantascienza, così umani troppo umani. Mentre ciò che non conosciamo è spesso proprio vicino a noi, perfino dentro di noi, ma si presenta in forme originali e inaspettate. Basta farsi trovare disposti all’incontro con l’insolito per riconoscere anche in un vino buono la potenza di qualcosa di stra-ordinario.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


«You’re not alone»7 

Quando ho avuto la fortuna di bere il Barolo di Rinaldi non conoscevo ancora la storia e l’importanza di quella cantina delle Langhe né avevo avuto la possibilità di bere molti altri Barolo. Ricordo bene però il senso profondo di malinconia suscitato dal liquido, capace di riattivare ricordi sopiti e renderli finalmente disponibili alla memoria. Un’attrazione magnetica, come se il vino pretendesse tutta l’attenzione e invitasse a raccogliermi in un confronto con me stesso. Sono quei momenti in cui la solitudine diventa una connessione autentica con il mondo: i ricordi si fanno reali, senti delle presenze vicino a te a cui non riesci a dare una forma o un nome, come fossero degli angeli. Quel calore sincero, quella sensazione di immersione totale nell’ambiente quasi a riprodurre l’immagine del grembo materno, è qualcosa che spesso ritrovo nel vino: penso ad alcuni assaggi de Le Trame di Giovanna Morganti o al Brunello del Paradiso di Manfredi. Esperienze così coinvolgenti da essere in grado di ricordare e riattivare la scintilla della prima bevuta e con lei il paradiso evocato dalla memoria dell’infanzia8. È un senso di protezione solo in parte rassicurante: la malinconia può essere allo stesso tempo un sentimento di nostalgia opprimente e paralizzante o un modo di ritrovare, nei ricordi passati, quei “futuri possibili” rimasti inespressi. Ancora una volta è in questa tensione, in questa soglia immaginifica e weird che abita la bellezza del vino e non nell’ordine docile di profumi prevedibili e di equilibri statici.

«I’ll show you light now. It burns forever»9

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il Poulsard 2000 di Overnoy non ha alcun tipo di rapporto lineare con il tempo. Non tanto per la capacità – talvolta sopravvalutata – che si richiede a un vino con qualche anno sulle spalle di affrontare gli anni che passano, quanto per l’impossibilità di capire a che epoca appartiene. Già dal colore evoca un liquido fantasma che potrebbe provenire da un possibile futuro perduto, come le rovine di un’antica città sommersa che appaiono nel finale del Castello di Cagliostro di Miyazaki. Se qualcuno ha avuto la fortuna, durante il lockdown, di camminare per le vie vuote dei fori imperiali a Roma, senza turisti, solo qualche fotografo a rendere ancora più suggestiva l’atmosfera, capirà bene cosa vuol dire provare questo senso bellissimo e allo stesso tempo inquietante di straniamento, di compresenza di epoche diverse, di non comprendere fino in fondo non dove ma “quando” siamo. La scienza ha oramai dimostrato, con Carlo Rovelli10 ad esempio, che “il tempo non esiste” o meglio che “non c’è un solo tempo, ce ne sono tantissimi”, e il vino può essere uno strumento artistico formidabile per comprendere fino in fondo questo concetto. A partire dalla pianta della vite che nel suo corpo, complici le nostre cure, mescola elementi di età differenti, come un fusto di 30 anni, un tralcio di 1 anno e una foglia di un mese, in una sovrapposizione virtuosa di tempi, energie, vite diverse. La fragilità apparente di alcuni vini è una ricchezza che va al di là del valore economico o affettivo della singola bottiglia. È «un tesoro che nessun ladro può rubare, che appartiene a tutta l’umanità», come dice Lupin a proposito della città perduta che compare alla fine del Castello di Cagliostro dopo il crollo della torre della fortezza. Ecco che lì dove pensavamo non ci fosse nulla di significativo compare qualcosa di bello e inaspettato, come in un vino che solo in apparenza sembra decrepito e invece ci dà accesso a una forza nascosta, profonda, senza tempo. È una bellezza tutt’altro che scontata, non è statuaria né priva di ferite, non vuole ricercare nessuna perfezione o aderire ai canoni stabiliti di una precisa epoca.

It’s all forgotten now11

Il “melenso pop da sala da tè”12 di Al Bowlly intrattiene le decine di fantasmi che popolano la sala da ballo di Shining e risuona ovattato nel bagno dove Jack Torrance incontra Grady, il precedente custode dell’Overlook Hotel. Le note sognanti di Midnight, the stars and you sembrano prendersi gioco del tunnel allucinatorio e orrorifico in cui sta precipitando Jack ed evocano una felicità consolatoria ma oramai perduta. Tempi diversi si intrecciano e la musica arriva in sottofondo come suonata da un vecchio grammofono, quasi a rappresentare una sorta di disturbo della memoria capace però di rendere tangibili le emozioni e reali i ricordi, anche se confusi e perturbanti. Le canzoni di Al Bowlly, insieme ad altre ballad degli anni ’20 e ’30, sono una presenza costante nella playlist suonata nella mia vineria e si mescolano a brani dalle sonorità elettroniche e canzoni più contemporanee. Un’atmosfera onirica in cui fantasmi del passato e del futuro appaiono ogni sera nella mia immaginazione, come i passeggeri spettrali del treno della Città Incantata. Si siedono ai tavoli vuoti senza che nessuno si accorga di loro, almeno finché bicchieri e bottiglie non vengono svuotati. È così che il potere evocativo del vino può manifestarsi, nel senso etimologico di “chiamare fuori” i propri fantasmi, uscire da sé stessi, rendersi conto delle relazioni di cui facciamo parte. Mostrare una modalità diversa di concepire il tempo e abitare il mondo. Il vino buono è capace di rinnovare lo stupore di quel primo folgorante incontro dell’infanzia, in forme ogni volta diverse. Arriva negli angoli più bui della nostra memoria per accendere una luce e cambiare il modo in cui ricordiamo, immaginiamo, costruiamo il mondo.

 

«Disse: “Procacciami una lanterna!” Io gli risposi: “Cammina adagio. A me e a te il luccicare del vino servirà di lanterna”. E ne versai una sorsata in un bicchiere. Questa gli fu aurora fino all’aurora».

Ab Nuws, traduzione di Italo Pizzi

Articolo di Emanuele Tartuferi a cura di Sandro Sangiorgi


  1.  L’arte dell’ebbrezza di Laurent De Sutter, Giometti&Antonello (2021)
  2.  Intervista Rai a Jorge Luis Borges, 1977

  3.  Al “disincanto” di cui parla Max Weber per indicare il processo moderno di dominio delle cose attraverso la razionalizzazione scientifica, negli ultimi anni alcuni filosofi rispondono con la necessità di un “reincantamento” del mondo3

  4.  Dal documentario “10 years with Hayao Miyazaki di Kaku Arakawa

  5.  Dalla traccia Come down to us di Burial contenuta in “Rival Dealer EP” (2013)

  6.  Dallo spazio e dal tempo. Lovecraft e il weird in The Weird & The Eerie, Minimum Fax (2018)

  7.  Dalla traccia Hiders di Burial contenuta in Rival Dealer EP (2013)

  8.  «Ho compreso che il paradiso risiede nei ricordi della nostra infanzia. In quei giorni eravamo protetti dai nostri genitori ed eravamo innocentemente incoscienti dei tanti problemi che ci circondavano. Pertanto, quando si cerca il paradiso, è necessario tornare con la memoria alla propria infanzia». (Interview with Hayao Miyazaki)

  9.  Da una scena di Inland Empire di David Lynch, campionato nella traccia di apertura Untitled dell’album Untrue di Burial (2008)

  10.  L’ordine del tempo di Carlo Rovelli, Adelphi (2017)

  11.  It’s all forgotten now di Al Bowlly e Ray Noble & His Orchestra dalla colonna sonora di Shining

  12.  Intervista a Mark Fisher di Beatrice Ferrara

  13.  Midnight, the stars and you di Al Bowlly e Ray Noble & His Orchestra