Dialogo tra due enofili impenitenti

La fortuna conosce solo strade tortuose.
Roberto Alajmo

ATTO I

Carmelo – Pensavo a quello che mi dicevi qualche giorno fa sul valore culturale del vino e sai una cosa? A volte mi capita di riflettere sullo stato del vino in Italia e mi viene da pensare che, nel Bel Paese, produttore storico, non ci sia quasi più speranza per il nostro amato liquido odoroso.
Sandro – Prova a pensare alla Francia, ad esempio. Di come il popolo francese senta il proprio vino. A quanto appartenga alle persone sin dalla nascita. Insomma, è da sempre un loro possedimento culturale e non perdono l’occasione di farlo pesare, in un modo che talvolta sfiora l’arroganza.
C – La Francia si può senz’altro definire una nazione enofila tout court. Ma a monte di questo c’è una ragione culturale davvero forte: i francesi sono, orgogliosamente, un vero popolo. Gli italiani, è dura ammetterlo, no.
S – La tua suona quasi come una semplificazione, ma potrebbe essere la ragione, o almeno una delle ragioni per le quali l’Italia, nonostante un confronto qualitativo alla pari e un corredo storico e di varietà indiscutibilmente più profondo, non sia riuscita dove la Francia ce l’ha fatta.
C
– Non dimenticherò mai le parole che il grande Gino Veronelli sentì proferire dalla bocca di un vignaiolo francese: Voi avete uve d’oro e fate vini d’argento. Noi facciamo vini d’oro con uve d’argento.
E Gino, allora, ci rimase molto male. Perché, salvo alcune eccezioni, era vero. Oggi, nonostante il rimarchevole, indiscutibile  recupero sul fronte della qualità, escludendo alcune regioni dove si beve più che in altre (Piemonte, Veneto, Emilia-Romagna, per citarne alcune), l’Italia oggi non può certo definirsi una nazione enofila. Un vero paradosso.
S – Una cosa è certa, chi avrebbe potuto aiutare le persone a diventare più consapevoli ha fallito miseramente. In senso culturale, intendo. E mi riferisco a quella generazione di enologi, sommelier, critici, giornalisti ed intellettuali che dagli inizi degli anni ottanta lavorano nel settore del vino.
C – Puoi approfondire questo concetto?
S – Certo. Credo fermamente che chi ha vissuto di vino avrebbe dovuto e potuto far tracimare il liquido odoroso dal suo alveo e consentirgli di allagare campi e campi diversi, facendo filtrare ciò che davvero significa essere una nazione enofila.
C – Ossia far “impregnare del vino” anche altri ambiti culturali?
S – Certamente. Così il vino sarebbe diventato un patrimonio condiviso, parte del senso comune di tutti gli italiani (come è accaduto in Francia). Il lavoro di Porthos mira anche a questo, ossia a far comprendere l’importanza di alzare la testa e abbandonare per un po’ le schede, le classifiche, i punteggi, focalizzando piuttosto l’attenzione sulla poesia, l’arte figurativa, i parallelismi evocativi e la sensualità carnale che il vino riesce a trasmettere e che non possono certamente essere incasellate freddamente in una scheda.
C – Quello che dici è interessante e sento di condividerlo in buona parte ma la mia impressione è che alla fine quello che tu “vendi” come una diversità di approccio in realtà punti a una cosa: a confermare, anche se in modo amplificato, su un piano più elevato e in una dimensione di polivalenza, quello status di “bevanda culturale” alimentato negli ultimi 20 anni dalla maggior parte degli addetti ai lavori, e che alla fine, come io credo, ha fatto più male che bene al vino.
S – Fammi capire meglio.
C – I consumi interni di vino in Italia negli anni settanta erano pari a 120 litri, oggi sono sotto i 40. In Francia sono sotto i 50 e qui sembrano avere una tendenza a stabilizzarsi. Da noi sembra invece confermata una tendenza al ribasso. Siamo minacciosamente proiettati verso i 35 litri pro-capite. Penso che quella spirale di liturgica ritualità che negli ultimi due decenni è stata intessuta attorno alla bottiglia, sommata a quella cappa di esclusività, di elitarismo e di mondanità che caratterizzano da sempre il mondo del vino e che gli stessi produttori hanno nel tempo alimentato, oltre a un linguaggio specializzato, quasi clubistico, settarico, hanno finito per allontanare la gente comune dal vino. L’uomo della strada di fronte ad una bottiglia si sente ormai in soggezione, preso dalla convinzione (errata ma giustificata) che il vino sia un liquido prezioso, un nettare per pochi iniziati, destinato a quella classe di stampo quasi sacerdotale fatta di esperti, intenditori o pseudo-tali. Dunque l’attenzione si è rivolta verso bevande come la birra, decisamente meno impegnative, meno rituali, meno radical-chic, come è diventato ormai il vino in Italia.