29 Nov Il Chianti, tra toscanizzazione risorgimentale e supertuscanizzazione post-moderna
Memoria. Ma io me ne ricordo bene; e so che l’una e l’altra tiriamo parimenti
a disfare e a rimutare di continuo le cose di quaggiù,
benché tu vada a questo effetto per una strada e io per un’altra.”
Giacomo Leopardi, Dialogo della Moda e della Morte (1824)
Dal ‘500 in poi ogni fin de siècle ha coinciso con un’accelerazione nell’enografia chiantigiana. Gli ultimi due secoli, in particolare, hanno rappresentato un tentativo pianificato con cura e tecnica – e scaltrezza di posizionamento – di imporre un comparto produttivo all’attenzione dei mercati internazionali.
Il XIX secolo è senz’altro il secolo di Ricasoli[1], della sua invenzione del sangiovese come vitigno principe dell’enologia toscana, della sua ricerca tecnologica volta al miglioramento qualitativo del vino chiantigiano e, una volta ottenuto, alla conservazione di questa qualità nel tempo e nello spazio (del commercio).
La scelta dell’ “Orso d’Appennino” di dedicare ogni suo sforzo al sangiovese – fino ad allora vitigno se non marginale, quanto meno complanare dello sfortunato ma ben più “tosco” canaiolo – deriva da alcune caratteristiche ben note già agli ampelografi rinascimentali: produttività, regolarità, robustezza, attitudine all’invecchiamento e al trasporto. Insomma, il prototipo del vino commercializzabile. Ma ciò che anima lo sforzo enologico di Ricasoli – il cui esempio esercita un influsso sui nobili colleghi/amici imprenditori agricoli che, con questa intensità, si rivedrà in queste lande solo un secolo più tardi – è la volontà tutta risorgimentale di confezionare un vino nazionale – non un vitigno! – nella cui toscanità si riconosca tutta l’Italia post-unitaria. Convinto come Cavour che lo sviluppo italiano passi attraverso il progresso agricolo, Ricasoli si sente un grande innovatore in questo campo. E su questo stesso campo ingaggia un duello a distanza con la Francia, modello produttivo, ma anche nemico da surclassare. Negli stessi anni in cui Ricasoli coltiva amor di patria e di nazione nel suo cuore e uve di sangiovese, canaiolo e malvasia a Brolio, l’odiato Napoleone III pone al centro del suo governo proprio il vino e lo sviluppo dell’industria enologica, nonché quella inimitabile opera mitopoietica di classificazione di vigneti e cantine la cui portata condiziona, oggi come ieri, i sogni dei degustatori francofili.
E non è dato sapere se sia questa motivazione tutta nazionalistica che spinge Ricasoli a denunciare severamente e a più riprese l’inadeguatezza della sperimentazione alloctona (francese) a favore del nostrale sangiovese.
La posizione sembrerebbe smentita da almeno due fatti:
1) la grande diffusione di quelle stesse uve un secolo più tardi proprio nella zona gaiolese;
2) l’enorme successo, nel panorama dei concorsi enologici nazionali, che già negli anni ’60 dell’800 mietevano il Pomino Bianco e gli uvaggi in rosso con vitigni francesi inventati da Vittorio degli Albizi al Castello di Nipozzano.
Sta di fatto che, aprioristici o empirici che siano, l’impegno imprenditoriale di Ricasoli e la scelta ampelografia su cui esso si fonda, creano e stabilizzano il prestigio del Chianti sui mercati di tutto il mondo. A metà ‘800 anche il vigneto toscano viene reimpiantato a causa prima dell’oidio, poi della peronospora e nel ‘900 per l’avvento della fillossera. Rispetto agli altri luoghi d’Italia, in Toscana esiste un precedente talmente illustre e vincente (sul mercato) da risultare ingombrante e si chiama, ancora una volta, Bettino Ricasoli. Sulla base della ben nota lettera al professor Cesare Studiati[2] del 26 settembre 1872, in cui si codifica la famosa “ricetta” del Chianti di Brolio, è fatale che i vigneti vengano reimpiantati con la prevalenza assoluta del Sangiovese, e di percentuali molto minori di Canaiolo e Malvasia Bianca, con l’aggiunta più tarda dei soli Trebbiano e Colorino, quest’ultimo destinato al governo.
[1] Bettino Ricasoli (1809-1880), patriota e politico toscano, fu tra i personaggi di spicco della scena enologica, culturale e politica dell’Italia pre e post-unitaria. Già in epoca granducale ricopre molte e importanti cariche e alla morte di Cavour diviene Primo Ministro del neonato stato italiano. Di temperamento schivo, refrattario alla vita mondana e alla mediocrità di corte o di palazzo, il “Barone di ferro” fu uomo di rigore morale al limite del giansenismo, «eretico, riformatore, permeato di influenze elvetiche e trasalimenti calvinisti» come ebbe a scrivere di lui Giovanni Spadolini. Profondamente convinto che l’ammodernamento del paese dovesse necessariamente passare attraverso l’agricoltura, fu membro eminente dell’Accademia dei Georgofili e dal 1838 iniziò la sua “missione” di riassetto agricolo nelle tenute di famiglia del Castello di Brolio, nei pressi di Gaiole in Chianti. Con l’obiettivo di confezionare un “vino fino” che potesse competere sul mercato internazionale con i grandi vini di Francia, dal 1851 al 1877 si dedicò con particolare cura alla sperimentazione enologica su vasta scala (già nel 1835 aveva tentato invano di dar vita ad una Società Enologica Toscana), individuando nel Sangiovese il vitigno da esportazione e codificando la famosa ricetta del Chianti, rimasta in voga per oltre un secolo, fino ai giorni nostri.
[2] Cesare Studiati-Berni (1821-1894), patriota e accademico pisano. Provenendo da una dinastia di medici e accademici fu avviato anch’egli all’insegnamento medico-scientifico presso l’Università di Pisa, dove fu lettore di fisiologia, anatomia, chimica ed altre discipline. Già dal 1848 intraprende esperimenti su vitigni e uve presso i propri possedimenti. Amico di Ricasoli fin dall’Esposizione Agraria Toscana del 1857, dal 1859 inizia con lui una amichevole corrispondenza che, dal 1861 in poi, assume via via le forme di una vera e propria – e moderna – consulenza enologica a distanza, con scambio di campionature di botte e dati analitici relativi a vitigni e vigneti su differenti giaciture,“magliuoli” di vite per selezioni massali, bottiglie di vini francesi per approcci analitici comparati coi vini di Brolio, con particolare riferimento ai livelli di acidità. Oltre a rappresentare un prezioso documento storico che descrive i fervori e le idee politiche di due moderati “istituzionali”, ma anche patrioti e uomini d’azione (Studiati fu al comando del Battaglione Universitario Pisano che partecipò alla Prima Guerra d’Indipendenza e fu fatto prigioniero dagli Austriaci fino al luglio 1848), il carteggio mostra, indiscutibilmente, la grande perizia, consapevolezza e conoscenza della materia enologica da parte del Barone Ricasoli. Nella lettera del 26 settembre 1872 a Studiati, Ricasoli descrive nel dettaglio caratteristiche organolettiche (e analitiche) e percentuali dei singoli vitigni utilizzati nell’uvaggio del Chianti di Brolio.