Miniature di Aprile 2010

Il vino buono, questione di contatto
Ho già definito, sulla rivista e in questa sede, la tattilità come elemento centrale nella valutazione qualitativa di un vino. Il concetto di partecipazione gustativa del liquido, quando entra in bocca e attraversa la lingua, comprende sia l’azione degli estratti, la loro quantità e qualità, sia le altre sostanze “fisiche” come gli alcoli, il tannino, la glicerina e l’eventuale anidride carbonica. Colpisce, anche se a pensarci bene non dovrebbe più di tanto, l’impossibilità di formare artificialmente il mosaico di sostanze che ci ha appena dato un chiaro senso di benessere, anche se potessimo rispettare le proporzioni al microgrammo e se, teoricamente, potessimo contare sugli stessi elementi appena decomposti e pronti a tornare insieme. Il motivo è nei legami, per ora impossibili da riprodurre, tra i vari protagonisti della partecipazione gustativa; è una trama, un infinito intreccio di fili sottili e resistenti che saldano i rapporti tra le sostanze. Quando si assaggia un vino nato senza intromissioni, se non quella di averne custodito la venuta alla luce, si coglie la qualità del contatto con la nostra mucosa. Anche una tipologia dalla natura accuminata e astringente può entrare in bocca facendo valere la vocazione naturale del liquido odoroso a donarsi senza condizioni. Un vino il cui equilibrio è stato modellato per ottenere un risultato commerciale, oppure per recuperare una materia prima scadente, non è in grado di renderci partecipi del suo sviluppo; lo troveremo freddo e distaccato, impegnato a osservare se stesso, a bearsi della sua cosmesi o a tenersi stretta la chirurgia estetica che gli ha permesso di essere commercializzato. Anche un’uva di un’annata meno riuscita, non parlo di acini poco sani ma di una qualità non così scintillante, possiede un piccolo equilibrio, tanto prezioso grazie alla sua fragilità che si traduce in una straordinaria trasparenza. Tentare di “migliorarlo” significa privarci del suo speciale contatto.

La suggestione, un potere nascosto
I testi sacri sulla degustazione insistono molto sulla necessità di non farsi suggestionare da alcun elemento che possa condizionare il nostro giudizio sul vino. Chi legge Porthos conosce la nostra posizione sulla supposta oggettività dell’assaggio che, per noi, è solo una boutade, una bugia creata ad arte per guadagnare potere e denaro, per crearsi un alone d’importanza. Di fronte a una batteria di vini serviti alla cieca non è utile sentirsi uno strumento delegato a dare un responso oggettivo il più possibile vicino alla verità. Lo spreco di energie che deriva da tale sforzo impedisce di cogliere il senso del vino e di poterlo raccontare. Esiste un senso del vino, mentre è fatua una sua verità? Evidentemente, salvo i casi nei quali il liquido è nato con inequivocabili problemi di stabilità e di fattura – puzze indomabili e prevalenti, concentrazioni assurde, legnosità invadente, ruffianità insopportabili – si deve parlare di senso del vino soggettivo. Avere accesso a questa percezione, ma soprattutto creare le condizioni per poterla condividere, è l’attività del critico e degustatore credibile. La suggestione è parte del suo sentire, guai se la tenesse fuori in modo meccanico, non ascoltando il suo stato fisico, mentale e psicologico.

Se so che in una serie di batterie di Montepulciano d’Abruzzo ci sono Pepe, Valentini, Illuminati e Cataldi Madonna, anche se si tratta di affrontare 24 campioni io cercherò quelle sensazioni che conosco, sono suggestionato dall’attesa che arrivino, non voglio, e forse non posso, escluderla d’imperio. Meglio godersi l’assaggio, lasciando alla nostra libera capacità di associare sentori ed emozioni, tattilità e gerarchie, il compito di mettere in ordine la valutazione. Suggestioni momentanee e pregiudizi radicati sono indispensabili per avvicinarci all’obiettivo di saper raccontare, e così condividere, la bellezza del vino.