Inizio

Nero d’Avola e frappato nel cuore dell’oriente siculo

Vini da taglio, vini da pasto

 

Le Domeniche pomeriggio
d’estate,
zone depresse.
Donne sotto i pergolati a chiacchierare e a ripararsi un po’ dal sole,
uomini seduti fuori dai caffè.
Poi la fine un giorno arrivò per noi;
dammi un po’ di vino con l’Idrolitina.
Problematiche, differenze di vita, zone depresse.
da Franco Battiato, Zone depresse, Orizzonti perduti, 1983 

 

Ho fatto cenno alla crescente esportazione vinicola siciliana, quintuplicata tra il 1870 e il 1882. L’eccezionale impennata — i cui centri principali erano Messina, Siracusa, Catania e Trapani — aveva carattere essenzialmente congiunturale. Era guidata dallo straordinario incremento della domanda proveniente dal mercato internazionale e, in particolare, da quello francese. La crescente dipendenza del settore dai passeggeri andamenti del mercato estero, nonostante il ruolo non secondario di quello nazionale, sollecitava gli osservatori più attenti ad avanzare critiche, perplessità e denunce sul tema della qualità del prodotto.
Le preoccupazioni erano manifestate dallo stesso Ministero dell’Agricoltura circa la   composizione della produzione vinicola, formata in gran parte da vini da taglio diretti specialmente in Francia.
Nella provincia di Siracusa tre erano i principali vini da taglio prodotti: il Siracusa considerato uno dei migliori, di grande corpo, profumato, vellutato, il Pachino, sotto il quale nome andavano tutti i vini prodotti nel territorio di Noto, Avola e Pachino, lo Scoglitti prodotto nella piana di Vittoria, tra i comuni di Chiaramonte, Comiso e Scoglitti. Si prediligevano le zone più calde, vicine al mare.
I vini da pasto, nonostante non fossero determinanti nell’economia isolana, mostravano qualità che ancora oggi li rendono famosi nel mondo. Basti pensare all’Etna, al Faro e, appunto, al Cerasuolo di Vittoria.

0Calcare1

Negli anni cinquanta i vini forti erano ancora destinati a rimpolpare quelli prodotti nel Nord Italia e in Francia. I produttori si mossero verso il potenziamento della produzione che sembrava essere l’unica possibilità di mercato. Questa scelta condizionò la ripresa del settore vitivinicolo, travagliato da problemi la cui portata si era fatta negli anni del Fascismo e della Guerra, sempre più grave. In ogni caso, per incremento di impianti, Vittoria si collocava tra le prime zone, insieme alla piana di Catania, a Milazzo, e all’Etna. 
Per reazione, negli anni settanta, si è arrivati a pensare che la salvezza fosse rappresentata dalle Cantine Sociali, pulite, raffreddate, enologicamente a norma, rispetto ai Bagli poco attrezzati, legati a una fattura dozzinale di vini da taglio. Si era posta la necessità di orientare la produzione ma anche i consumi. 
L’export di sfuso è passato da quasi due milioni di ettolitri del 1999 a poco più di 150 mila del 2009, con una perdita del 90%. La Francia (dove lo sfuso è ancora oggi usato per correggere la gradazione alcolica e il colore, in particolare nel bordolese), che era il mercato principale fino agli anni novanta, oggi compra vino spagnolo, più economico di quello italiano. E anche se nel frattempo è più che raddoppiato l’export siciliano in bottiglia, la crisi è evidente. Soprattutto nel trapanese, che con una superficie vitata di quasi 60mila ettari è il secondo distretto vinicolo in Europa per dimensioni, dopo quello di Bordeaux, e da solo copre la metà della produzione siciliana.
Soldati affronta la questione vini da taglio con la sua sagacia quando, in occasione del primo viaggio di Vino al Vino del 1968 si reca nelle province di Catania, Siracusa e Palermo. Riporta aneddoti spassosi alla ricerca di vini che non avessero un’alcolicità – lui, da bravo piemontese ci tiene a segnalarlo – così elevata, e comunque ci fornisce avvincenti testimonianze di carattere socio-politico-culturale. Ecco la parte più incalzante del suo intervento: «Lo scopo della legge sul non zuccheraggio dei vini era ben altro, era molto semplicemente quello di aiutare i baroni viticoltori dell’Italia meridionale in particolar modo di Puglia e Sicilia a vendere i loro mosti, provenienti da terre bruciate dal sole e non irrigate, ricchi di zucchero generatore di alcool. Nacque così lo scongiurato “meridionale” come lo chiama il De Marchi, che cita prima sul romanzo “Giacomo l’idealista” del 1897. Nacque il famoso taglio che tanta parte ha nella decadenza dei nostri vini e soprattutto delle nostre capacità di gustare il vino. Una vera rovina, sia per i vini settentrionali e centrali, che nel taglio si alteravano, sia per gli stessi vini meridionali che fatalmente cominciarono ad essere conosciuti dai consumatori del nord solo attraverso l’impiego che se ne faceva nel taglio, mentre vinificati sui loro posti e con uve vendemmiate non così tardi avevano tutt’altro sapore. La tradizione meridionale infatti voleva che le uve fossero raccolte non come accade dopo la promulgazione della legge e cioè preoccupandosi prima di tutto del raggiunto grado di dolcezza, ma vendemmiate prima, a tempo giusto, quando non sono ancora così cariche di zucchero». Tra l’altro, ancora oggi, il grado Babo delle uve e dei mosti e il grado alcolico nei vini sono ancora parametri fondamentali per stabilirne il prezzo.

 

Ampelografia
Rispetto ai precedenti approfondimenti sul Meridione vitivinicolo, abbiamo considerato (almeno) due vitigni. Nelle altre occasioni abbiamo cercato di rilevare la relazione tra una varietà e uno o più territori per provare a comprenderne il temperamento. La bellezza del vino del sud est siculo è legata a questo straordinario equilibrio delle parti, una congiunzione astrale: Nero d’Avola e Frappato, così sovraesposto il primo tanto da divenire “simbolo”, quanto esclusivo e rivelatorio il secondo. Il nero d’Avola trae beneficio da questi luoghi, le condizioni pedoclimatiche gli conferiscono un’eleganza tutta particolare. Ho spesso sentito dire: «Il nero d’Avola, qui, sta bene sul calcare». Limitandoci al nostro luogo d’interesse, il vittoriese, i 190 ettari delle denominazioni “Cerasuolo” e “Cerasuolo classico” vedono prevalente il Nero d’Avola seguito di poco dal Frappato. Questa situazione rispecchia la proporzione come da disciplinare (60% Nero d’Avola e 40% Frappato, che può arrivare al 50%).
L’origine del Frappato è riconducibile al vittoriese dove è coltivato dal 1600, tuttavia alcuni ampelografi gli conferiscono una derivazione spagnola. Nella zona calatina è conosciuto come Nerocapitano. È presente quasi esclusivamente a Vittoria e nella valle dell’Acate, ma si trova anche in altre zone, tra cui Noto. Dopo un periodo di trascuratezza è in forte rivalutazione. Il grappolo è medio-grande, l’acino rotondo e dalla buccia spessa e pruinosa, blu violacea; è una varietà piuttosto tardiva. Il Frappato produce un vino di un colore mediamente più chiaro rispetto al Nero d’Avola. Da sempre ha rappresentato l’archetipo del vino da pasto, dalla finezza peculiare. Il nome riporta alle foglie particolarmente dentellate. Matura intorno alla fine di settembre.

5Alberello Arianna

L’etimologia del Nero d’Avola basterebbe già a rendere avvincente la sua storia: compare in alcuni scritti del 1500 ed è registrato nel Catalogo Nazionale delle Varietà della Vite come Calabrese. Si tratta di una di quelle situazioni linguistiche complicate dalle incursioni dialettali, ovvero l’italianizzazione del termine calavrisi, poi calabrese: calavrisi, uva di Avola oppure “calata, venuta da Aurisi” da Avola (Aurisi è il vecchio termine per definire Avola); nel 1800 viene associato al paese costiero in provincia di Siracusa.
È senza dubbio il vitigno più rappresentativo della Sicilia, ha la capacità di concentrare grandi quantità di zucchero. Riscuoteva molto successo come vino da taglio o da bere giovane: fino a qualche decennio fa, dal porto di Marzamemi partivano enormi cisterne di vino verso Toscana, Piemonte e Francia (dove era noto come vin medecine). Il grappolo è medio-grande, alato, non molto compatto, l’acino ha una forma leggermente allungata e una buccia di medio spessore di colore bluastro con poca pruina. Il succo diventa subito violaceo, molto zuccherino e conserva buona acidità. A Vittoria matura nella seconda decade di settembre.
Durante le visite è emerso un aspetto peculiare: l’età media del vigneto vittoriese è piuttosto bassa, poche vigne superano i cinquant’anni e, inoltre, un numero esiguo di produttori si preoccupa di praticare gli innesti in campo e la selezione massale.