
18 Mag Aldo, il silenzio del Vinsanto
Aldo
Aldo illumina, occhi chiari, sapore di vertigine. Uno spillo di ossessione, percettibile solo se s’osserva il suo occhio per un tempo infinito. Altrimenti è silenzio, sorrisi freschi. Sguardo ai confini della dolcezza. Un prestigiatore, un marine della vita. Forse, semplicemente, un uomo accorto. La sua aneddotica è scarna. Il principio di sobrietà governa ogni muscolo. Siamo ai limiti bassi del terzo millennio. Non è un vecchio giovane. Non è un uomo che si attarda a sembrare qualcosa di diverso. È un uomo della sua età, integro nei gesti. Sembra sempre che pensi a qualcosa di pratico. Comunica un senso di ovvietà che atterrisce. Mi è capitato solo una volta di avere questa sensazione. Eravamo a Broni. E quel signore, anziano anch’esso davanti a me, misurava parole e gesti come fossero ovvietà. Non erano ovvietà, naturalmente. Come non sono state ovvie le parole di Aldo. Ma è il senso di rassegnata congiunzione al destino che atterrisce. Come se… come se non si fosse mai potuto fare altrimenti. Anche combattere, in quella situazione, sembra essere stata una cosa ovvia. Come se la straordinarietà di essere comunque sopravvissuti, fosse ovvia. Come se fosse ovvio fare un Vinsanto così ma, come a Broni, anche qui tu sentissi chiaro lo scarto con quella furente “intelligenza delle cose”, con quella coscienza del senso ultimo dei dettagli. Un’eco di fondo. Come quel lieve, lievissimo stacco di luce nella pupilla che puoi avere solo se guardi infinitamente, senza scomporti, quegli occhi.
Aldo nasce nel 1927, la guerra non l’ha fatta, però l’ha vissuta, come tutti in quegli anni. Ma la guerra non è la traccia della sua vita, come qualche volta accade in chi l’ha attraversata a un’età così centrale. La traccia della sua vita, per quanto i tedeschi fossero a Castiglione e tirassero delle gran botte verso la Caina, sembra essere una sorniona forma di adattamento, di spirito di congiunzione al destino. Un buonsenso dispiegato crudamente alla tempesta degli eventi. In fondo, un sentimento molto comune in chi ha lavorato duramente per vivere, in chi ha lavorato sempre. Lavorare come respirare. Senza chiedersi perché. Quello che squarcia il velo, che al solito rende nella vita meritevole il distruggere il terreno del consueto, è lo spazio di assenza della saggezza. Il vuoto. La conservazione del diabolico. È l’albergo del desiderio o del dolore. Aldo ha suonato le campane della chiesa di Pieve Caina per tanti anni. Suonare le campane significava richiamare tutto il paese ai propri spazi di libertà. I momenti di pausa, i momenti di stacco dal lavoro. Sempre quello, sempre quello dei campi. È assurdo, se non fosse assurda la vita, definirlo una sorta di servizio pubblico, qualcosa per cui guadagnare la gratitudine dalle persone.
Aldo da giovane ha lavorato la terra, era “a padrone”, come la sterminata maggioranza, mentre smisurata è la bocca del vulcano da cui è esploso. Finendo lontano. Finendo qua. Aldo, quando riusciva, partecipava anche alla vendemmia e alla vinificazione del “padrone”.
Il padrone è una storia che non voglio sapere: c’è dentro un buio non di azioni, ma di respiro, di prospettiva, talmente prevedibile nel suo svolgersi e nelle sue conclusioni, che non vale la pena che io la racconti, tranne un particolare. Il padrone faceva il Vinsanto ed era bravo e il Vinsanto era buono, la sua fama superava le mura del castello. E il padrone lo beveva tutti i giorni, a colazione. La mitologia. E Aldo voleva imparare a farlo. Dal più bravo di tutti.
Aldo ha cominciato a fare Vinsanto a vent’anni. Girava per il contado e a lui, suonatore di campane, i contadini davano dell’uva, come segno di gratitudine. Di rispetto. Un’uva che lui sceglieva, portava in casa (nella casa che il terremoto ha distrutto) e vinificava come Vinsanto. Sempre nella stessa maniera. Ma, a differenza di tutti, a differenza di un infinito mondo di persone che vinificava un vino dolce, Aldo il suo vino non lo finiva entro l’anno. Aldo lo conservava, «per vedere l’effetto che fa», mi viene in mente. Aldo di mestiere ha fatto il sarto da uomo. E lo rivela con una fierezza composta, come chi sa che nella vita ha fatto qualcosa di diverso. Qualcosa che lo erge, immediatamente, sul fronte di chi sa disegnare la bellezza. E la compostezza. O la compostezza. Chissà. Insomma qualcosa che è vita quotidiana e aspirazione al cielo, nello stesso istante.
C’è una coscienza, silenziosa, mai espressa fino in fondo, ma completa. La dimestichezza con qualcosa di diverso condotto con grande maestria. Con una sapienza segreta. Di chi ha semplicemente fatto intuire agli altri quello che sapeva fare. Il resto sarebbe dovuto rimanere un segreto. Fino al momento giusto. L’apparenza.
Il Vino
Novembre 2015, è quando abbiamo cominciato. La cantina è piccola, minuscola. La porta di ferro apre su uno stanzone di cemento non intonacato. Da terra al soffitto solo damigiane di varie fogge e forme. Una quantità inaudita di vetro, all’apparenza irraggiungibile. Seppellito è il termine giusto. Poi, sul soffitto, nella parte sinistra della stanza, appesi, tanti grappoli d’uva. La vinsantaia prende forma. Lì abbiamo assaggiato, nei calici del servizio buono, due vini, il 1968 e il 1969. Quella sera, era tardi, ricordo che guardai Aldo e dissi: «dovremmo tornare, dovremmo assaggiare tutto. Provate a rimettere un po’ a posto, a sgombrare un po’ di roba. Qui c’è un miracolo».
È partito il viaggio, che grazie a Nadia e Alvaro è stato possibile. Grazie alla loro pazienza e alla loro testarda generosità.
Maggio 2016, la degustazione. «È facile – racconta Aldo – prendere in mano dell’uva. Basta che sia dolce e non sia trattata, quelle porcherie che ci mettono sono una maledizione per la fermentazione. La porto in cantina, nella stessa da sempre, da quando ho diciotto anni. L’appendo, la faccio asciugare e lascio diluviare il profumo qua dentro. Ci sono momenti che non so, ma mi pare un viaggio lontano quello che costruisce l’uva qui dentro. Qui, dove è solo mio, dove entro solo io.
«Siamo sempre nella zona dei Vinsanti da fiume: vini pastosi, densi, l’ossidazione qui è una violenza che non ci possiamo permettere. Tutto è composto, resistiamo agli strappi sui paesaggi, pensa se non resistessimo agli strappi sul vino. Sarebbe un tradimento, no?
«Vuoi sapere come si fa il Vinsanto? È facile, facilissimo. L’uva va raccolta a 30 di “babo”, il mio mostimetro è sempre lo stesso da quarant’anni e non ha mai detto sciocchezze. Sotto i 30 non ne è mai valsa la pena. Pura verità, nonostante qualcuno (e guarda Alvaro) tentenni sull’abilità del mio mostimetro. Guardalo che bello, guarda come risponde!». E lo posa, con grazia da orefice, in un cassetto sperduto nella cantina. Come un mago appoggerebbe la sua bacchetta in cima al cielo.
«Le uve sono le nostre, grechetto, verdello, biancame, lupiccio, qualche volta dolciame. Vengono e venivano tutte da Spina e dintorni. I grappoli li appendo da novembre a febbraio/marzo e li faccio asciugare. Poi con Nadia oggi, e con mia moglie prima, scegliamo grappolo per grappolo i chicchi buoni. Anche di notte, se c’era da consegnare i vestiti. Quelli meno belli li stringiamo a parte e vanno a fare un Vinsanto diverso, nero, “fraido”, come ho scritto sui vetri. Li vedi? Quello lo consumiamo prima, durante l’anno. Ma è sempre pochissimo. A volte, finisce nell’orcio di terracotta».
L’orcio di terracotta… Perché, dovete sapere, la prima sera, in cantina, come un rabdomante, io ho riconosciuto l’odore dell’aceto che aveva incendiato le melanzane. E, a un certo punto, cercando la risposta all’enigma, ho sbattuto su un orcio di terracotta da 50 litri, più o meno, e ho sentito il rumore di un liquido a zonzo in un contenitore. L’ho aperto, senza chiedere, ed è comparso Aladino, è comparso l’aceto, l’aceto fatto col Vinsanto “fraido”. Ecco il suo segreto, uno fra i tanti, decidere subito quale vino destinare all’aceto. Come saggiare il vino allungandolo con l’acqua. Segreti, nemmeno tanti, più che altro certezze, quando devi decidere se ne vale la pena. «Il resto, be’ il resto, quando è pronto, quando è sufficientemente carico, lo pigio, senza togliere i raspi. E il mosto lo metto nel bigonzo di legno. Da lì, poi, finisce diretto a fermentare in damigiana. La parte con i raspi la passo al torchio piccolo da 50, leggero, così con quel liquido rabbocco le dame. E, appena colmate le chiudo coi tappi scannellati con il coltellino. E lascio li. Per due anni. Immagina che io parto sempre da quantità piccole, 60-80 kili di uva, massimo 100. Poco. Pochissimo. Poi, travaso, rimetto in damigiana, metto la ceralacca perché così mi hanno insegnato. E non faccio nulla».
Mentre Aldo parla, Nadia mi guardava esterrefatta: suo padre non aveva mai raccontato come, con tanta precisione, avesse coltivato il suo destino. «Io non credevo venisse così bello – continua Aldo – così buono forse sì, ma così bello no. Vedi Marco, il padrone lo faceva chiaro. E quella luce era un obiettivo, un segno di grazia del vino. E io mi infuriavo, perché lui raggiungeva una limpidezza per me sconosciuta. Oggi, quando vedo alcuni di questi bicchieri nelle mani tue e di Guido, mi placo. Mi sento sospeso, questo sì. È arrivato anche lui, al colore che avrei voluto. C’è voluto del tempo. È andato per la sua strada. Lo sapevo che non mi avrebbe tradito.
«Volevo lasciare qualcosa, un segno. Un solco sulla vita che ho attraversato. Fatto sta che oggi, mentre ti guardo che assaggi mi sembra di essere riuscito. Questa te la regalo. Prendila. Io non ho mai preso una sbornia in tutta la mia vita. Ricordatelo».
Qui finisce il racconto. In fondo troverete il resoconto degli assaggi. Tutto quello che avete letto è vero, sintesi, allunghi e intuizioni sbagliate incluse. Non credo di aver altro da aggiungere se non un grazie vivo a chi è arrivato fin quaggiù. E un pensiero ad Aldo, a quello che ha fatto, che lo rende UOMO fra gli uomini. Un pensiero a Spina e ai suoi gatti, che tornino presto nei prati, lasciando di nuovo le pietre ai suoi abitanti. Un pensiero a Guido, novello Virgilio con una Marlboro in bocca.