01Aldo

Aldo, il silenzio del Vinsanto

a cura di sandro sangiorgi

Dichiarazione d’intenti (giugno 2016)

Questa è la storia del mio incontro con il Vinsanto di Aldo. Novant’anni. Da Pieve Caina. Provincia iperuranica di un impero sterminato, dove Pieve Caina non è mappata perché non è luminosa come Sidney o tumultuosa come Londra. Di lei rimane solo la condanna a una bellezza cristallizzata, come fosse una cartolina spedita duemila anni fa. E di Aldo rimane l’invisibilità. Pur conservando entrambi, impastata nella pietra delle loro rispettive carni, la pozione magica dell’identità.
01Aldo

Nessuno. Perduto in un buco. Nel centro di un’Italia dimenticata, maledetta dalla sua autosufficiente bellezza da cartolina.
Perché scriverne? Per la voglia di riscattare i luoghi della memoria, la loro prossimità geografica rispetto ai luna park dell’oblio; per un amore viscerale delle ossessioni altrui, questo magnete incestuoso che unisce tutti i destini; per l’ansia di spalancare, correndo su una lingua mai udita a quelle latitudini, una voragine su una vita che il tempo condannava ineluttabilmente al suo destino di pietra. Una pietra che a ogni crepa rivelava solo altri pezzi di pietra. Mai un centro, mai un cuore. Intatta. Ferma. Di una ritrosia autentica, definitiva. Così antica da parlare un codice alieno. Coltivo la speranza di esserci riuscito, ma si sa che la speranza è un colore cobalto esploso nel cielo. Che non tutti hanno gli occhi per sopportare. Se qualcuno vorrà, alla fine di queste parole troverà un resoconto dettagliato sui Vinsanto di Aldo, redatto con tutte le accortezze del caso, dopo un paziente e lungo assaggio di tutte le damigiane scovate nel suo antro mistico. Non so se quel racconto possa considerarsi il senso ultimo del mio “viaggio dentro una vita”: è certo che i vini di Aldo siano, in alcuni casi, dei grandi, grandissimi Vinsanto. In altri, per accorgimenti testardi, frutto di una sapienza ripetuta, ma non indagata, sono vini immobili, figli di una visione quasi paludosa del procedere. Una magmatica capacità di riempire argini, di coprire spazi. Di adattarsi.
Quello che, sicuramente invece, ha il senso ultimo di questo viaggio, di tutto questo tormento di parole, credo sia l’idea che un uomo, in una maniera o nell’altra, stia lì a sopravvivere a un’ossessione: io ho vissuto sulla mia pelle lo sguardo di Aldo infiammato dal terrore, bruciato dal desiderio che dentro quel vetro riposasse un vino indimenticabile. E io, togliendo quei tappi, bevendo quei vini, sono stato travolto dallo splendore. Che si è riflesso negli occhi immobili di Aldo. Questa è una vittoria.
Questo è il senso. Un riscatto che auguro a chiunque. La realizzazione stessa dell’idea di redenzione. Essere guardati, essere accolti. Avere fatto centro.
Buon viaggio.

Introduzione
Siamo in terrazza. Sono le 19. È un luglio bollente. Dall’alto vediamo Aldo che sta rientrando dai campi, a piedi. Alvaro mi dice: «la prima volta che ho parlato con lui è stato per chiedergli se fosse contento che facessi l’amore con la Nadia. Che volessi farlo per tutta la vita. Be’, Marco, è passata qualche decina di anni e non ho ancora sentito la risposta». Aldo ha novant’anni. Oggi, mentre scrivo, è al mare. Prima di partire ha sistemato tutto. Tutto quello che serve, come dice Nadia, perché il ritorno sia confortevole e non trascini scorie. Come se non si fosse mai partiti. Aldo ha la forza solida di una roccia che non fa valanga, ma sostegno; ha la sintesi di una goccia che scrosta la vita, che la distilla. A un certo punto devo aver calcato la mano, senza volerlo. Spazientito dai suoi silenzi, dal suo modo riluttante di raccontare, di rispondere. Mi è uscita una domanda stupida come «ma voi, Aldo, potete dire di aver vissuto una vita felice?». Non si fanno domande così. Dice il galateo del voi. Il galateo del rispetto verso chi ha solcato la terra per parecchio tempo più di te. Tuttavia, diceva un maestro, a volte occorre essere duri. Non cattivi, ma diretti sì… a un certo punto, la verità serve.
Aldo mi guarda dalla siderale altezza della sua età: sono due ore che stiamo insieme, in silenzio, uno vicino all’altro (Guido è più lontano di qualche centimetro, in questo singolare triangolo, baluginato dal caldo), uno su una seggiola e uno sull’altra. Io, un marziano che annusa bicchieri, dopo aver salito scale per dissotterrare damigiane seppellite da tutto l’immaginabile e martellato ceralacca dai tappi. E appena prima di aver annotato su un computer parole incomprensibili. Lui, immobile, seduto come quando il tempo ha un valore ragguardevole e sforzarsi di compiacere può essere frutto solo di grande motivazione. Di solito mal spesa. E questo è quello che arriva dall’impassibile muscolarità dei gesti di Aldo.

2Aldo

Un’onda deve salire da qualche parte del suo corpo, perché gli occhi s’inumidiscono, gira il volto e dice: «la mia unica fortuna è di essere arrivato a novant’anni». “Unica”. Unica. La parola che ha acceso i fari delle ruspe sulla cava della sua vita. Sulla devastazione aperta dalla scomparsa di un figlio, sugli ultimi anni da solo, senza più il conforto della moglie. Su quest’ultimo periodo, fuori dalla sua casa, letteralmente evacuato. Ora, mi dico, un uomo infelice non è contento di essere ancora con le orme sul prato. Nonostante le grazie premurose di sua figlia e di Alvaro, il loro affetto e la loro dedizione ai confini della magia. Un uomo posseduto da un demone, invece, dentro di sé ringrazia il suo dio di essere ancora sugli scudi. Soprattutto se incontra chi sta, finalmente, elevando la bestia a luce, chi si sta occupando di dissotterrare un’ossessione.
Se può aprire la cantina all’esorcista: diciotto annate di Vinsanto, in quantità differenti. Tutte mai bevute fino a qualche mese fa. Fino al nostro arrivo.

15 dicembre 2009
Il mio compleanno è il giorno dopo. Quell’anno decido di festeggiare il 15, con una cena da me: io, Barbara e Petra, Guido e Annalisa e non ricordo chi altro. Con Barbara abbiamo deciso che cucineremo mantovano: agnoli, lesso, sbrisolona. Lambrusco. Una cosa calda. L’inverno è in arrivo. Il 15 mattina, saranno le 11, chiamo Guido.
Ha quarantotto anni, lavoriamo insieme da un po’. Tante serate nel vino, con il vino, alla scoperta di pianeti nuovi. Il vino è stato il detonatore del nostro stare insieme. Lo chiamo per sondare gli umori per la cena: suggerimenti, bottiglie da aggiungere, stupidaggini, questioni di lavoro. La solita rassicurante routine telefonica. Quella che sostituisce il «come stai» e permette, tra le righe, di capire lo stato d’animo, al di là delle risposte confezionate. L’appuntamento è fissato a casa mia per le 20:30.
Le 14:10, sono in ufficio, a Perugia: all’improvviso una scossa di terremoto forte e lunga irrompe nella routine. La botta è stata forte: siamo umbri, io sono di Spoleto, insomma l’abitudine a dondolare c’è. Quasi un pezzo di DNA.
Ma stavolta s’intuisce che c’è un’anomalia. Terrore, spavento, colleghi che urlano. Subito le telefonate, con le linee che funzionano a intermittenza: a casa, a Barbara che è ancora in maternità, ai parenti. Si capisce che la botta viene dall’ovest dell’Umbria, tra il Tevere e il Trasimeno, epicentro vicino a Spina, si legge su internet.
Cazzo. Chiamo Guido di corsa. A ripetizione. Sempre occupato. Dopo un po’ risponde. «non so; non ho capito. Mi stanno chiamando in tanti, sto correndo giù. Sembra nessun ferito, ma tanta paura. Annalisa era confusa. Non so che dirti. Ti chiamo dopo. TU-TU-TU-TU».
Aspetto. Per pudore. Poi, verso le 15:30 prendo la macchina, in venti minuti sono giù. La situazione è quella di un brutto terremoto: scossa da 4.2, leggeremo poi. Vigili del fuoco, forze dell’ordine, tutto il castello di Spina sfollato, gente in piazza. Racconti che si moltiplicano, come una voce che si alza dai calcinacci spezzati per terra. Prime crepe evidenti su uno dei più suggestivi castelli del contado perugino. E Guido, con Annalisa, Giulia e Vittoria, davanti al bar, come tutti, a raccontare, a spiegare, a sfogare il terrore di essere chiusi in un borgo pieno di minuscole viuzze e vedere la casa che si apre tra le pareti e il pavimento. Io non so, ma ricordo precisamente il pigiama (o forse era una tuta? a volte penso che la precisione sia una dimensione mistica che sconfigge i dettagli) di Vittoria. Il risveglio della bomba. L’irruzione della follia nella vita. Essere prelevati nella normalità e aprire una buca sul futuro. Quei ricci biondi, messi in piazza senza che qualcuno li avesse avvertiti. Ecco questa è la guerra. E, come loro, tutto il paese e tutti i racconti dei paesi più prossimi. La voce sale forte. I calcinacci tremano. Spina sarà il luogo con intensità EMS più forte. Scopriremo poi.
Siamo nella parte più settentrionale del comune di Marsciano, tuttavia Spina, come tutti i paesi colpiti dal terremoto, fa riferimento al contado della Porta Eburnea di Perugia. Fortificazioni storiche, annesse al capoluogo tra il 1200 e il 1300 per allargare le difese. Posti incantevoli. La campagna umbra più didascalica. Verde, piccoli borghi, castelli. Paesaggio dolce, senza essere sfacciatamente memorabile come la vicinissima Toscana. Una vita che resiste lontana dai rumori e dalla frenesia. San Biagio della Valle, Castiglione della Valle, Mercatello, Sant’Apollinare. Pieve Caina. Questo nome mi appare per la prima volta.
Oggi, finalmente, la ricostruzione pesante è partita. In questo autunno del 2016. Per finire non si sa ancora quando. Tanti sono ancora fuori dalle loro case. Guido è uno di questi. Aldo non è più rientrato. A Pieve Caina. Il piccolo castello a ridosso del torrente Caina. La casa dov’è nato. Casa sua.