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Aldo, il silenzio del Vinsanto

I vini che abbiamo scovato con Guido sono elencati qui sotto. Ci sono dei salti temporali: alcuni dei più vecchi non ci sono più, o sono stati regalati, sono finiti, non sono mai stati fatti, o, semplicemente, sono spariti. Inoltre non sempre la qualità delle uve ha consentito di vinificarle come Aldo avrebbe desiderato. Il Vinsanto “fraido”, come lui lo chiama, è presente in svariate bottiglie, ma è sempre senza annata. I formati dei contenitori sono tutti diversi, dai 5 ai 54 litri, passando addirittura per bottiglie dell’acqua minerale. In quel caldo pomeriggio di maggio, alcune di queste annate non le abbiamo assaggiate: dei Vinsanti nuovi, quelli recenti, ci sembrava giusto non scoperchiare le damigiane. Il Vinsanto è un vino che guarda ai decenni. Tanto più con una vinificazione in assenza di aria che brama disporre di tempo per potersi distendere e alleggerire. Abbiamo pensato non avesse molto senso svegliare bambini appena nati. La maggior parte delle damigiane aveva una ceralacca intonsa, sopra un tappo fragilissimo: una parte del tempo che abbiamo passato con Guido è servito per levare la ceralacca con cura e per arrampicarci. Qualche volta i contenitori da 54 litri erano troppo in alto, e lì l’abbiamo lasciati, evitando di smuovere tutto e prendendo solo qualche bicchiere con il “rubavino”. L’assaggio dei vini più vecchi è stato fatto anche in momenti precedenti a maggio. Il giorno che abbiamo redatto le schede, ad assaggiare, eravamo solo io e Guido, Aldo ci guardava. Nadia e Alvaro, mentre noi eravamo in cantina, stavano occupandosi della pulizia della siepe esterna alla cantina. O, forse, erano lì a proteggere, con discrezione, le parole di Aldo. Le note sono le mie, costruite sui miei assaggi e su alcune felici intuizioni di Guido, e come tali sono tutte ascrivibili alla mia responsabilità, nel bene o nel male. Non amo mettere voti e spero che i giudizi siano ugualmente chiari. È un liquido prezioso, che a volte, da quando siamo arrivati a riscoprirlo, è omaggiato in quantità piccole, per non disperderne la magia. Naturalmente non m’interessa la sua rarità, la quasi “non esistenza” del vino, sono felice di aver partecipato alla custodia familiare di una memoria, per renderla feconda, attiva, partecipe.

1969
Ambra piena, con una vena fredda di arancia candita. Il naso è un antro di genziana, tabacco, mandorle secche, albicocca disidratata. L’alcol è pungente, reattivo. C’è una finestra da cui entra un vento di cenere che nel tempo chiude un po’ il naso. La bocca è nuda, zuccherina in modo infantile. L’alcol irrobustisce l’onda d’urto della dolcezza. La cenere è una nota che rende il vino meno naif. È un occhio freddo su un sorriso solare. Non il più buono, ma certamente il migliore possibile per andare incontro alla scoperta.

1970
Il naso è fresco, vivacissimo. La dimensione vitale dell’uva spremuta è ancora intatta in questo effluvio di dolcezze, ossidazioni trattenute, lunghezze malmostose e intensità timbriche di grande presenza. C’è una consapevolezza mai ostentata nel passo di questo vino che risulta magnifico in bocca: la corrispondenza è stupefacente per integrità e per la corale e plastica eredità nel bicchiere. Rimane il ricordo di un passo serratissimo, senza alcuna sbavatura, nessun dettaglio gigionesco. Scultoreo, parla, senza dover più dimostrare nulla oltre quello che è.

1980
Il primo colore che si stacca nettamente da tutti gli altri: arancia chiarissima, integra. Un colore schietto, pulito, ai confini della freddezza. Al naso escono con maggior forza le mandorle dolci e lo zucchero filato. Esce una nota affumicata, quasi vulcanica. Il naso è splendidamente sottile, estraneo ai barocchismi dei Vinsanti, è una corda di mandarini canditi, con una volatile così “contemporanea” e ritmica da sorprendere.
In bocca sembra un whisky delle Highlands, asciutto, pieno senza smagliature, un alcol così magistralmente fuso da restituire solo il senso della custodia del liquido. Un finale iodato, quasi vitreo, che riporta integra tutta la tensione di un prodotto originalissimo.

1985
Colore molto cupo, mogano e succo di prugne. Intimorisce per il buio strano che fa presagire. Al naso poggia sulla prugna e sul pomodoro secco, sulla pesca matura ossidata dalla luce del sole. L’alcol ingombra, c’è un fiato di ammoniaca che disturba, una dolcezza da crisi iperglicemica, l’acidità restituisce una nota agrodolce, quasi da cipolla, la densità della coltre che si stende al palato è un muro, spesso, alto. È un superalcolico. Il suo contatto quasi nullo con l’aria (la ceralacca e il tappo erano perfettamente integri) lo rende intonso, impenetrabile, talmente fuori scala da risultare magnetico. Tuttavia è un vino sospeso, un presagio del dramma, un vino uscito dalla damigiana come un uomo sfuggito a un incendio. Soffocato, ma salvo. È un vino che ho scoperto poi essere nato in un momento che mai nessun uomo dovrebbe attraversare. Tragico.

1989
Colore meno buio del precedente ma ugualmente intenso, anch’esso impenetrabile nelle sue venature da prugna. Verso il naso si muovono geiser idrocarburici, gomma, foglia di pomodoro, pesca sciroppata, prugna, visciole sotto spirito, antico toscano in fumata. La bocca è meno ridondante di quella dell’85, c’è una tensione amara legata all’alcol che scalpita per superare i confini del liquido. Anche qui la corrispondenza gusto-olfattiva è mirabolante, il vino si muove come un tutt’uno, per la tipologia azzarderei che è rude, severo.

1993
L’occhio vede un’ambra scurissima, un rame bruciato, un riflesso di notte: il torbido del marrone e delle cipolle in agrodolce.
Al naso esce il cardo, la carruba infuocata dal sole, richiama una ricchezza barocca, la finezza è tutta un presagio, nascosta dietro un quadro di ghirigori. Col tempo esce la prugna che diventa dura, cupa. L’alcol prima lo serra, chiudendolo, poi gli concede un’imprevedibile autorevolezza.
In bocca si distende elegante, col passo del grande brandy: noce, roccia, cardo, carruba, pesca asciugata al sole, foglia di pomodoro. Tempra solidissima, è un capo, tosto ma con qualche concessione alla goliardia, se serve a rinsaldare il gruppo.

1993

1994
Ambra scura, colore della notte, il marrone, la pesca ossidata, l’albicocca “cotta” caduta dall’albero.
Naso appena aperto con una volatile significativa: ti spiazzano i piccoli frutti rossi, quasi lampone, poi la gomma.
La bocca è di estrema dolcezza, tuttavia la sua totalità travolge. Miele, lussuria, un vino da triclinio: morbido e lascivo, ridente, quasi orgiastico. L’alcol è un capolavoro di dettaglio, come se danzasse con l’estratto a disegnare una forma sferica, succosa. Ossidazione splendida, leggera, intonata al respiro del vino.
Riposava in una damigiana letteralmente seppellita. Sembrava mimetizzata, proprio per proteggerla. Quando l’ho aperta, Aldo l’ha assaggiata e ha sorriso, sapeva che sarebbe stato buonissimo.

1995
Il naso è lieve, semplice, uva fresca, biscotto.
In bocca è spogliato, piuttosto bloccato, gioca su richiami di Vov e sciroppo al caramello. Si è piantato in una palude, almeno per ora.

1998
Il colore è pulito, trasparente, limpido: ambra assolata, colora di tramonto caldo vicino al fiume. Al naso è arancia, marasca, con una vena di sasso, di calcare chiaro.
In bocca è salatissimo, tonico, tutto aggrappato al sapido che spezza l’esuberanza dello zucchero, ritma con l’alcol il flusso, scoda sferzante di cardo e asparago. Fiume, ciottolo, uva spina, e poi arrosto morto. Timbrica quasi da confettura di pomodoro e peperoncino. Non si allunga e si asciuga, lasciando un tono alcolico sopra le righe.

2003
Il colore è sullo standard degli altri, lascia poco spazio all’intuizione.
Naso da bitter, china, alcol, arancia candita, pesca sciroppata, cassata.
In bocca ritrovi tutta l’offerta odorosa, con in più il melone e un finale da visciola matura. L’insieme sembra una meravigliosa marmellata su una crostata di burro poco cotta, il ricordo di una merenda. Naif nel senso alto del termine, ha una dignitosa allegrezza, felice come gli occhi di Alvaro impegnato in un assaggio veloce. Corroborato dal gusto, ha detto «ahhhhh!», schioccando la lingua.

2004
Tenebroso al colore e tetro al naso, con una nota di prugna che rende più scheletrica la cupezza. La volatile è più rintracciabile, quasi a pulire gli ingranaggi del vino. A distillarli. In bocca è affilato, leggermente meno alcolico, quasi più composto, con un fondo da tabacco, caffè e pesca essiccata al sole, bosco in altura. Vecchia Farmacia. Un’acidità sana e sferzante governa il sapore e lo allunga. Sarà grande.

2009
Color mogano, piatto, immobile, senza sfumature, imperscrutabile.
Naso di arancia e cardamomo, tamarindo e fragola, biscotto e cioccolato.
In bocca è dolcissimo, si muove placido ma, nonostante la tenuta zuccherina, non è stucchevole, forse per quel finale salato che disarma un po’. Che sia un presagio? Un vino in divenire, ancora da comporsi. S’intravede un esito simile al 1980. Bontà sua.

2010
Aperto, immediatamente rimanda a un senso di fine. Il liquido è sovrastato da un’acidità volatile che lo imbarca, lo spiaggia. Peccato.

2015
Naso in precocissima fermentazione. Limone candito, benzina, zucchero, macchia, fiume. In piena evoluzione. Esotico, tropicale, come predire il carattere a tre giorni dalla nascita. Chissà.

botteescaffali

«E se davvero tu vuoi vivere una vita luminosa e più fragrante cancella col coraggio quella supplica dagli occhi
troppo spesso la saggezza è solamente la prudenza più stagnante e quasi sempre dietro la collina è il sole…».
“La collina dei ciliegi” dall’album Il nostro caro angelo, 1973, Numero Uno;
musica e canto di Lucio Battisti, testo di Mogol.