Vigneto Cannonau in primavera - Porthos Edzioni

Mamoiada e il Cannonau: una presa di posizione


note di degustazione di sandro sangiorgi e matteo gallello

foto di antonella anselmo e sandro sangiorgi

La Sardegna e Mamoiada in particolare, non consegnano una sola espressione del Cannonau. Nella nostra ricerca, rivolta alla scoperta della varietà espressiva, sono state determinanti le indicazioni di Francesco Sedilesu, insieme a quelle di Giovanni Montisci. Non accontentandoci di nomi celebri, abbiamo chiesto a Francesco di indicarci i vignaioli che imbottigliano per passione e che ancora non vendono ufficialmente il vino. Si sono aperte, così, due finestre su questo territorio: una riconosciuta, consolidata, l’altra imprevedibile, senza intenti commerciali strutturati, fatta da uomini e donne che offrono la loro presenza attraverso i vini.
Gli scambi con Francesco ci hanno restituito un territorio malinconico e orgoglioso: «Il buon Dio ci ha dato una terra meravigliosa. Ne dovremmo essere contenti, noi sardi, e non andare dietro a pensieri pessimisti e a tecniche di lavorazione della terra e delle uve, estranee alla nostra tradizione, che rischiano di rubarci quella gioia che invece nel mondo contadino c’è, eccome! La cosa più bella è andare per cantine dove un bicchiere di vino non si nega mai. Insomma può essere, il nostro, un canto corale».

Vigneto Cannonau in primavera - Porthos Edzioni


La vita a Mamoiada

Mamoiada si trova al centro della Barbagia, nella Sardegna nordorientale, a 16 chilometri da Nuoro, a pochi chilometri dal Gennargentu e dal Supramonte. Paese dei Mamuthones, ha in questa maschera tradizionale un grande patrimonio culturale, ancora integro dopo migliaia di anni. Momento cruciale per la comunità è il 17 gennaio di ogni anno, quando Mamuthones e Issohadores fanno la prima comparsa durante la festa patronale di Sant’Antonio Abate. In quest’occasione le maschere sfilano intorno ai falò accesi dai mamoiadini nei vari rioni del paese, animando una festa molto antica che ha la sua origine nei riti di propiziazione delle popolazioni rurali in coincidenza del solstizio d’inverno. I primi insediamenti nell’area di Mamoiada risalgono al Neolitico, come la stele megalitica “Sa Perda Pintà” (la pietra dipinta), ornata con cerchi concentrici e coppelle, simboli legati probabilmente ai culti legati alla fertilità e al ciclo di morte
e rinascita.

La vite a Mamoiada
Il vigneto mamoiadino a fine Ottocento misurava 100 ettari, divenuti 200 dopo la seconda guerra mondiale. Negli anni sessanta la viticoltura era un’attività diffusa, gli ettari vitati erano più di 400 e c’erano le basi per fondare la Cantina Sociale con l’intento di sviluppare il settore ma, anche per la mentalità dei mamoiadini, ci dice Francesco, non avrebbe potuto avere successo. Infatti, fallì nei primi anni ottanta. Il prodotto della Cantina sin dall’inizio fu accolto come negativo, le persone non riuscivano a “sentirlo”, solo il vino di casa era considerato vero, un prodotto di cui ci si poteva fidare. 
Il patrimonio viticolo di Mamoiada, al momento, è rappresentato da 300 piccole cantine su 700 famiglie che abitano il paese: «Oltre alla vigna, tutti possiedono l’attrezzatura per fare il vino e alcuni vivono della vendita dello sfuso. È davvero un prodotto sacro, determina lo status sociale di chi lo fa: puoi parlar male della figlia ma non del vino…»..

Vigneto Cannonau in inverno - Porthos Edizioni

La famiglia Sedilesu
Nel 1977 Giuseppe Sedilesu, padre di Francesco, inizia a lavorare in mezzadria il primo ettaro di vigneto, gli viene proposto l’acquisto ma non ha i soldi necessari. Era rimasto orfano e aveva sempre praticato i lavori più disparati, anche i più umili, come il servo pastore. Per i Sedilesu, il vino non era una tradizione familiare. Soltanto dopo oltre venti anni di lavoro, Giuseppe riesce ad acquistare cinque ettari grazie a duri sforzi e alla produzione di sfuso, che vende nei paesi vicini e con cui provvede al sostentamento della famiglia. Compiuti settant’anni, il capostipite riunisce i figli per decidere insieme se continuare a commerciare il vino sfuso; tutti scelgono di dedicarsi all’imbottigliamento, creando così un’azienda vitivinicola strutturata. Le prime prove risalgono al 2000. 
Da quel momento cresce il numero dei viticoltori della zona e Francesco non può che esserne felice, è un grande sostenitore della cooperazione: «Voglio che il vino e il territorio abbiano un volto, anche per migliorarsi come uomini e donne. Certo, a volte sono guardato con diffidenza perché sono io stesso che invito a produrre e imbottigliare. La mentalità del sospetto c’è, ma è trascurabile, è solo una difficoltà iniziale. Il vino è meraviglioso, non risente di questo aspetto, perdona i lati negativi dell’uomo».
Le uve che la cantina Sedilesu acquista, circa il 50%, provengono dal territorio mamoiadino. La maggior parte biologiche certificate, le restanti biologiche di fatto: «Per quanto possibile, stiamo comprando vigneti perché si possa fare una produzione totalmente nostra, così da rispettare e interpretare al meglio le nostre uve e la nostra zona».

Storia del Cannonau di Giuseppe Sedilesu - Porthos Edizioni
dal sito www.giuseppesedilesu.com

Circa il 43% su un totale di 7500 ettari di vigne a cannonau sono situate in Barbagia; a Mamoiada se ne coltivano circa 270 ettari. Il paese barbaricino è situato a 700 metri sul livello del mare, la sua viticoltura è perciò di alta collina. I vigneti si trovano dai 550 ai 900 metri: «Raccogliamo dal 20 settembre al 20 ottobre. Qualche decennio fa si iniziava il 5 ottobre per finire nella prima settimana di novembre. A 700 metri fa freddo… ma anche molto caldo! Il nostro Cannonau ha un tenore alcolico maggiore rispetto, ad esempio, a quello del Campidano, dove le temperature medie sono più alte. Lì il calore è tale da “fermare” la maturazione degli acini. Per noi le forti escursioni termiche sono davvero salvifiche. Esistono situazioni come questa, in cui talento della natura e mano dell’uomo interagiscono anche senza tradizioni millenarie alle spalle».
Dopo l’era delle Cantine Sociali, in Sardegna è stata la volta dei famosi wine maker: «Hanno dato indicazioni, hanno stravolto e, purtroppo, continuano a stravolgere la viticoltura sarda». Nonostante questo l’agricoltura, l’enologia e anche la gastronomia sarde sono rimaste “dentro casa” permettendo, così, di conservare un patrimonio: «Apparentemente siamo rimasti indietro ma, in verità, siamo all’avanguardia». In zona il metodo di conduzione più diffuso è il candelabro, l’alberello piatto e non palizzato, un impianto non casuale, archetipico dell’agricoltura artigianale di qualità. La potatura viene effettuata ad hoc, come se la pianta fosse un individuo, non è un’impostazione codificata. Proprio la presenza di tanto vigneto centenario è dovuta alla cura specifica, selettiva, affiancata a una gestione sana della terra. Sia Sedilesu che Montisci lavorano i filari degli alberelli più vecchi con l’aratro trainato da due buoi.