La verticale del Chianti Classico Riserva Il Poggio di Castello di Monsanto


Sede di Porthos, mercoledì 16 gennaio 2013, verticale del Chianti Classico Riserva Il Poggio Castello di Monsanto della famiglia Bianchi.

Annate: 2001, 2003, 2004, 2006, 2007, 2008
In apertura: Lambrusco Salamino 2009 Azienda Quarticello
Intermezzo: Chianti Classico Le Trame 2004 Podere Le Boncie di Giovanna Morganti

Premessa

Ciascuno dei partecipanti fa parte di un gruppo di persone che si conoscono per la comune frequenza di corsi e degustazioni, organizzate presso Porthos ed è stato invitato a portare un cibo.


Avvertenze

Come si vede dall’elenco dei vini, ne figurano due, che non fanno parte della verticale. Il primo, il Lambrusco, perché introduce e prepara la degustazione, abituando il palato, qui ed ora, al vino. Il secondo, un altro Chianti Classico, perché offre una pietra di paragone al vino preso in esame.
Per l’ordine di servizio, si è scelto nel caso specifico di procedere dal più vecchio al più giovane, spiegando che tale scelta risponde ad abitudine piuttosto che a regola, poiché a seconda dei vini in questione l’ordine di servizio può, anzi deve mutare, fermo restando che generalmente sono il vino più vecchio e quello più giovane ad avere bisogno delle maggiori attenzioni, ovvero di tempo, per motivi opposti. Il primo per risvegliarsi, il secondo assestarsi.


Cos’è successo
Versati i primi tre vini e il quarto “intruso”, si decide di sostituire l’ultimo bicchiere per confrontarlo con lo stesso vino di altra bottiglia. Definiscono la prima serie dunque cinque vini. Anzi sei, c’è un vino ulteriore, Il Poggio 1998, presentata a sorpresa oltre i campioni degli anni 2000.

Prima batteria – Il Poggio 2001 (1)[1] , 2003 (2), 2004 (3), Le Trame 2004, primo (4) e secondo (5) bicchiere, Il Poggio 1998 (6).

Gigi: «Ho avvertito un senso di fastidio nel quarto vino». A che cosa è dovuto questo fastidio, gli viene subito chiesto.

Silenzio, poi Rocco: «Ho trovato un’evoluzione dal 2001 al 2004. I profumi, come la liquirizia, la terra bagnata, il cacao, hanno una buona corrispondenza gustativa. Però il finale è anche amarognolo».

Ursula: «Preferisco il vino numero uno, per armonia e fascino. Una maturità che esprime profondità».
Max e Simone annuiscono. Gigi aggiunge di preferire il vino numero 6 perché armonico.
Armonico in che senso? Perché ricco di vibrazioni, come intende il significato del termine Sandro?

Gigi: «No, armonico perché equilibrato, ben scandito nelle sue parti, in sintonia col tempo trascorso».

Claudio: «Il 2004 mi sembra il più compiuto, e ferroso e sanguigno. Però il finale è amarognolo, sarà l’uso del legno?»

Patrycja: «Tanto legno nel 2001. Calore nel 2003. Fiori recisi e note vegetali nel 2004. Preferisco il vino 5 e c’è un descrittore curioso che userei, profuma di grasso del prosciutto crudo».   

Elisabetta: «Il quinto vino il migliore? No, faccio fatica a riconoscerlo, mi domando se sia un Chianti, sa di smalto ed è meno complesso degli altri. Il 2004 della Riserva trovo che sia il migliore».

Alessandra: «Meglio il primo vino e l’ultimo: entrambi equilibrati».

Max: «L’ultimo vino di questa batteria ha una profondità, oltre all’equilibrio, diversa. Una perfetta definizione scenica».

Simone: «Sono d’accordo con Max, preferisco il vino numero 6, se dovessi assegnare un premio lo darei unicamente a questo vino. Ha una definizione delle parti, un loro svolgimento e congruenza che agli altri proprio manca».

Francesco: «Ho preferito il quinto, per finezza dei profumi ed estroversione. Per la dinamica e leggerezza che ha. Fra le Riserve scelgo la 2003, vince in bocca: è pieno, vitale, e ancora si deve svolgere».


Seconda batteria – Il Poggio 2006, 2007 e 2008


Via con gli altri tre vini, che Gigi trova con tannini asciuganti, per Rocco sono un po’ troppo omologati. Insomma per scrivere pane al pane e vino al vino e leggere comunque cum grano salis, il problema è che il vino vira su note verdi e legnose, asciuga la bocca, rende omogenea quella varietà che significa ricchezza.
Perché il 1998 è così diverso?
Matteo ci illustra la storia dell’azienda e suddivide quattro momenti fondamentali: dal 1962 al 1968, nell’uvaggio con cui viene prodotto Il Poggio sono presenti uve bianche, si adotta il metodo del governo toscano; la loro successiva sparizione coincide con l’aumento di percentuale di Sangiovese, mentre il 10% di Colorino e Canaiolo rimane invariato. L’invecchiamento avviene in botti di castagno da 35 ettolitri. Dal 1970 la maturazione in legno avviene in botti da 50 ettolitri di rovere di Slavonia e con gli anni novanta è stato introdotto l’uso della barrique oltre ad altre importanti innovazioni in cantina. Dal 2001 Fabrizio Bianchi e la figlia Laura, che lavora accanto al padre dal 1989, si avvalgono della collaborazione dell’enologo Andrea Giovannini.

Il meglio viene ora, lasciamo la cronaca, iniziamo a mangiare e a riflettere. Mangiamo e conversiamo. E il clima si distende e si anima. Avverto davvero un senso di liberazione, di sana rilassatezza: non si tratta più di analizzare il vino ma di berlo in abbinamento al cibo. E la faccenda cambia, cambia di molto.
Mi viene spontaneo chiedere a Sandro come le condizioni di giudizio sul vino si trasformino se questo è abbinato al cibo.
E in realtà chiedo anche perché, qualche mese addietro, partecipando ad una verticale dedicata alla Schiava dell’Azienda Girlan, mi ponevo lo stesso problema. La Schiava da il meglio di sé quando si mangia.
Quell’abbinamento al cibo che, anche per ragioni pratiche, è quasi sempre tralasciato nelle degustazioni pubbliche e ci si abitua male dal momento che il vino viene messo in una condizione che non gli appartiene.
Aggiungo che la complessità del cibo, con le sue elaborazioni, mi pungola, mi spinge sempre di più a confrontarla con quella del vino.
E qui, per il sottoscritto, a sorpresa, la risposta di Sandro: «Ho scritto che il vino è un servitore, un ministro del cibo e della tavola».
Capito bene? «Il vino vive nel matrimonio con il cibo. […] La sua vocazione a servire la tavola è antica quanto la sua nascita, e dipende dalla spontaneità con la quale si esprime nel connubio col cibo e trasmette la sua varietà alla bocca[2] »
Servire la tavola, altra parola sacrificarsi a tavola[3]. Ovvero, intendo io, rinunciare a qualcosa per qualcos’altro. E quest’altro sta nella capacità del cibo e soprattutto del vino di spingere al riassaggio, alla riprova, alla ripetizione. Cosa che accade per la sua natura fluida, liquida, transitoria, che realizza un atto, anzi un istinto, primario[4]. Ogni volta un nuovo inizio, una disposizione sensibile al riassaggio, un autentico desiderio, complessivo, integrale e ordinario, che fa tanto parte delle nostre vite da non rendercene spesso più conto.

[1] Tra parentesi viene indicato il numero della bottiglia.

[2] Sandro Sangiorgi, L’invenzione della Gioia, Porthos Edizioni, 2011, Roma, pag. 50

[3] Ibidem, pag. 322: “Anzi, [il vino] deve essere pronto a sacrificare una parte di sé. Talvolta infatti l’affiancamento di un boccone e un sorso di vino sembra perfetto, ma già al secondo tentativo questa sensazione si tramuta in stucchevolezza, segno che tra i due attori non si è innescata una reciprocità”.

[4] È noto che per Freud la coazione a ripetere sia uno degli istinti fondamentali, oltre al quale sta il desiderio di morte.