I produttori di Bordeaux non hanno facce da contadini

Prologo

«Sandro deve essere impazzito», penso quando Sangiorgi mi chiede di seguire per Porthos una conferenza stampa con degustazione del millesimo 2009 dei vini di Bordeaux. L’evento, parola tipicamente milanese, è organizzato nella mia città dall’Union des Grands Crus de Bordeaux, l’associazione che raccoglie oltre cento Château, il meglio dei produttori della zona che circonda la Gironda.

Anzi, delle migliori zone che circondano la Gironda e dei migliori Cru di quelle zone. Penso a un momentaneo ma deciso mancamento del mio guru enoico e ho le mie ottime ragioni. Primo, sono un appassionato e non un giornalista. Secondo, mi sono abbeverato al verbo del vino vero e naturale, ho letto tutto Mario Soldati, il Veronelli più massimalista e conosco a memoria pezzi interi dell’opera omnia sangiorgiana. Terzo, potrei andare in confusione alla presenza di settanta banchi d’assaggio, in piedi e senza la necessaria meditazione. Poi, un’illuminazione: «È proprio questo il motivo. Lascia andare la mente, il corpo seguirà». Spiego quello che ho capito: Walter Benjamin diceva che la riproducibilità ha cambiato la visione prospettica dell’opera d’arte. E questo è un atto con un’oggettiva forza politica, utilizzato nel corso del Novecento da molte ideologie organizzate. Si pensi a come il cinema di Leni Riefensthal ha modificato l’immaginario della Germania Nazista. Così l’enologia del Novecento, che nel bordolese ha la sua patria primigenia, ha cambiato la visione prospettica dell’esperienza estetica del gusto. E questo ha modificato, politicamente, i territori e i mercati del vino, ovunque nel mondo. Questo fenomeno è importante e non va evitato. Forse nemmeno giudicato. Allora, mi appresto al lavoro con l’occhio attento e, per quanto possibile, scevro da pregiudizi. Da sociologo.

Svolgimento

I produttori di Bordeaux non hanno facce abbronzate da contadini, né mani sporche di terra. I produttori di Bordeaux, e i loro rappresentanti, indossano camicie immacolate, cravatte che potrebbero essere di Charvet e scarpe inglesi, come a santificare a livello terra-terra la lunga compagine che lega il loro territorio all’isola d’oltremanica, sodale dai tempi di Eleonora d’Aquitania e padrona fino alla Guerra dei Cent’anni. Hanno volti soddisfatti e una buona confidenza di sé. Parlano un elegante francese, spesso un buon inglese e qualche volta masticano un buongiorno in italiano, per squisita politesse. Si capisce che conoscono il mondo, hanno letto libri belli e si sono formati in buone scuole. Affettano il piglio del capitano d’industria e si presentano con bei nomi francesi rotondi e antichi. Però – dicono orgogliosi – l’Union des Grands Crus de Bordeaux rappresenta solo il 7% dei produttori. Una piccola percentuale dei 120.000 ettari vitati dell’intero territorio bordolese nel sud-ovest della Francia, a cavallo della Gironda, quasi al punto in cui la foce si apre verso l’Atlantico. Una parte ancora più esigua dei 5.800.000 ettolitri complessivi prodotti e solo tredici delle oltre cinquantasette denominazioni riconosciute alla zona. Il Gotha, l’aristocrazia, il meglio. Quasi tutti eredi, al netto delle alienazioni, delle divisioni e delle acquisizioni internazionali, di quelli che possedevano gli Château riconosciuti, già nell’anno di grazia 1855, Grands Crus Classé dal primo al quinto livello. Almeno per le zone del Médoc che quella classificazione considerava. Tutte all’interno dell’Unione, ora, insieme ad aree di più recente nobiltà come Pomerol e Saint-Émilion. Li vedresti, tutti i settanta presenti all’incontro, ritratti con le gorge di pizzo in un dipinto di un pittore spagnolo che a Bordeaux venne a morire, Francisco Goya. Che, forse per uno sgarbo ai locali, volle, nella sua ultima opera dipinta qui, rappresentare una lattaia, bellissima ed eterea nella sua presumibile dieta analcolica. Oddio, li vedresti ritratti se avessero il tempo di fermarsi a farsi ritrarre tra un aereo e l’altro. Percorrono infatti orgogliosi centomila chilometri l’anno per promuovere se stessi e il terroir. Una compagnia di giro perfetta e oliata, con tessere millemiglia di platino. Perfetta nei tempi, nei modi, nelle battute. Anche quando cortesemente si lamentano con se stessi, prima che con gli italiani, della relativa inconsistenza della domanda di vini bordolesi nel paese degli amici d’oltralpe: «Con cui noi francesi condividiamo l’amore per il buon vino, per lo stile di vita raffinato, per la voglia di esportare nel mondo la nostra eleganza». Solo sette milioni di euro per il totale dei vini rossi e bianchi secchi: «Di più, se consideriamo i muffati Sauternes e Barsac, che sono molto apprezzati in Italia». Solidi e illuminati come i borghesi girondini loro antenati, che della Rivoluzione Francese rappresentavano la parte liberista e liberale, contro quei massimalisti dei giacobini. Gente seria, con un occhio allo sviluppo commerciale e una sensibilità più simile alla rivoluzione industriale inglese che allo statalismo vincente dei loroghigliottinatori. Solidi e grandi, quasi tutti. Con tenute che di rado scendono sotto i venti ettari vitati.