I produttori di Bordeaux non hanno facce da contadini

Comunque, non nel pregiato Médoc, dove gli Château vantano estensioni e numeri produttivi non certo di nicchia, anche per le linee migliori e più costose. Numeri e dimensioni industriali che hanno attirato nel tempo investitori e gestori importanti, come l’azienda giapponese del beverage Suntory (Château Lagrange, Château Beychevelle e Château Beaumont), Axa, LVMH, Roederer, Pinault e altri. Come nello Champagne e più dello Champagne. Qualche volta, meno dello Champagne, come nel caso dell’attenzione all’ambiente e alla naturalità dei vini: «Noi tutti siamo consapevoli della responsabilità nei confronti dell’ambiente. Ma come associazione non abbiamo protocolli o strategie in materia. Molti dei nostri associati sono in lotta integrata e qualcuno prova l’approccio biodinamico. Ma a livello di gruppo lasciamo totale libertà ai singoli associati».

 

Non che le cose in mille anni di produzione eccellente siano sempre andate in modo impeccabile. Qualche macchia su tanto blasone aristocratico nel tempo è fugacemente apparsa. Già nell’Ottocento, quando qualcuno si accorse che parte dei vini del celebre «taglio bordolese» – merlot, cabernet sauvignon e cabernet franc, petit verdot e malbec, vinificati separatamente e in percentuali variabili secondo la ricetta esclusiva di ogni singolo Château – arrivavano assai spesso dal Nord Africa e non erano neanche dei cépage dichiarati. Più di recente, alla fine degli anni novanta, Château Giscours, produttore di Margaux presente alla degustazione, fu coinvolto per le annate novantatré e novantaquattro in querelle giudiziarie per strane manovre di cantina, tra cui l’utilizzo di trucioli e l’aggiunta di additivi non consentiti per rendere morbido il taglio finale.

Questo non intacca, in verità, una storia fatta di straordinario livello produttivo. E una scuola di enologia che ha visto nascere nel Novecento alcuni dei migliori talenti del mondo. Dal mito Émile Peynaud, che insieme a Jean Ribéreau-Gayon fondò nel 1949 l’Istituto di Enologia di Bordeaux e che ha scritto i libri sicuramente più acquistati dai degustatori di tutto il mondo, al figlio di Jean, Pascal Ribéreau-Gayon, a Denis Dubourdieu. Fino a quel Michel Rolland, protagonista e «vittima» del film/documentario Mondovino, considerato l’enologo più influente e ricco del mondo. Un vero mago delle concentrazioni e del legno, la cui consulenza ha contribuito a lanciare i prodotti di Château come Angélus, Canon, Lascombes e Troplong Mondot.

A proposito di Michel Rolland, di Mondovino e dell’altro protagonista del film, il noto critico statunitense Robert Parker: questi ha definito il millesimo 2009 «la migliore annata, forse, tra quelle degustate in trentadue anni di frequentazioni bordolesi». «Un’annata da antologia» è invece la definizione dei nostri ospiti dell’Union des Grands Crus de Bordeaux, prima di offrire a un pubblico di giornalisti, esperti e clienti una vasta scelta di Château. Un giudizio che comprende nella legittima rivendicazione di eccezionalità i vini rossi, i bianchi secchi – principalmente a base sauvignon e sémillon – e i “liquorosi”, come hanno più volte definito i muffati, in una forma che, erroneamente, mi era parsa di involontaria approssimazione, mentre poco dopo ho scoperto che determina legalmente la tipologia dei liquidi da meditazione più celebri al mondo.

Un’annata da antologia, allora, per vini che assomigliano alla regione bordolese e più ancora ai loro produttori. Solidi e belli come mobili Luigi XIV, in vetrina nelle strade nobili del centro. Tirati a cera con i loro impeccabili fiocchi rossi a impreziosire i lucchetti di artistico ferro lavorato. Proprio quei mobili che, lo sai, abitano e profumano di legno le case e i castelli dei produttori più nobili. Che di quella vista e di quegli odori hanno fatto “romanzo di formazione”. Vini in alcuni casi già pronti a due anni dalla vendemmia. La Borgogna è lontana.

Al netto dei superlativi è difficile essere sempre d’accordo sull’eccezionalità dei vini degustati e, come deve accadere, nel dettaglio la realtà è diversa dalle descrizioni generaliste. Innanzitutto devo confessare di essermi concentrato sulla degustazione dei rossi e dei muffati, tralasciando i vini bianchi secchi ai quali spero di poter dedicare un’altra vetrina. Tra i rossi la prima grande differenza è tra i vini della riva destra – Pomerol e Saint-Émilion – che hanno percentuali di merlot superiori a quelli della riva sinistra. Un’annata con un agosto particolarmente caldo ha portato a una maturazione precoce e alla vendemmia anticipata. Questo deve aver reso difficili le produzioni ad alta percentuale di merlot, un’uva pronta da raccogliere prima delle altre del blend bordolese. Il risultato sono spesso vini con una forte concentrazione di colore, una scarsa dinamica gustativa – vini poco fini – e una lunghezza data più da sensazioni amare che da un giusto livello di sapidità. Minori problemi nelle zone più vocate del Médoc, dove una maggiore presenza dei cabernet, una vendemmia più tardiva e un settembre decisamente più fresco hanno permesso di produrre vini delineati da uno spettro di sensazioni gustative decisamente più articolato. Discorso parallelo per i muffati. Le sensazioni di dolcezza sono in questo caso prevalenti. Tanto da ingannare. Sembra quasi di degustare vini passiti più che botritizzati. La concentrazione di zuccheri, le sensazioni di pasticceria, prevalgono sui toni speziati, di zafferano ed erbacei delle annate più sofisticate. Se avete giustamente avuto sempre dei dubbi sull’abbinare i vostri pasticcini secchi con i Sauternes, quest’anno potreste tentare l’esperimento.